Daria Deflorian è una di quelle figure che attraversano il paesaggio con grazia. Quello scenico, quello emozionale, quello urbano, Roma, la città dove vive e in cui capita talvolta di incontrarla. A pensarci però questi aspetti sono legati, entrano nella sua ricerca, si mescolano agli altri componenti che la caratterizzano come autrice e perfomer, non sarà un caso se ha scelto di abitare vicino al teatro India, intorno al quale aveva costruito un progetto di ricerca che coinvolgeva l’area dove sorge – tra i luoghi di Io la conoscevo bene e le trasformazioni di Roma – e che è tornato seppure a distanza nei giorni del lockdown. O che le sue storie sulla scena condivisa dal 2008 insieme a Antonio Tagliarini esplorano la realtà del nostro presente di solitudini, spaesamenti, universi troppo pieni, paesaggi appunto intimi e collettivi, quelli dei corpi e delle emozioni.

Forse è  questo che la porta a sottrarsi all’ipotesi di un teatro online. Spiega: «Il teatro che facciamo noi è pensato per svolgersi dal vivo, con gli attori in presenza, col pubblico che rende ogni replica un’esperienza nuova». In digitale però durante la pandemia insieme a altri artisti Daria Deflorian ha condiviso « a distanza» l’avventura di Radio India, l’emittente del Teatro di Roma nata co i gruppi di «Oceano Indiano» (DOM-, Fabio Condemi, Industria Indipendente, mk, Muta Imago),il progetto di residenza produttiva ideato da Francesca Corona e sospeso a causa della pandemia.

ANCHE la nostra conversazione è avvenuta «a distanza», una lunghissima telefonata, come capita in questo periodo a partire proprio dall’esperienza di Radio India che si conclude oggi per riprendere rinnovata nei prossimi. Racconta: «Quando tutto è iniziato io e Antonio Tagliarini eravamo in tournée in Francia con Quasi niente, qui iniziavano le chiusure, lì i teatri erano tutti pieni, ci sembrava di vivere in un altro mondo. Poi mentre eravamo a Marsiglia hanno chiuso le sale anche in Francia, quando siamo riusciti a rientrare ci ha accolti una Roma deserta. Pochi giorni dopo Francesca Corona mi ha chiamata chiedendomi se avevo qualche suggerimento. Le ho detto che in quel momento riuscivo a ascoltare solo la radio forse per la sua dimensione di memoria rituale un po’ perduta nei ritmi frenetici del lavoro. L’idea di una radio per il tempo dell’emergenza era proprio quella a cui stavano pensando coi gruppi di Oceano Indiano, potevamo sperimentarla usando un tempo che non abbiamo abitualmente a disposizione per ascoltarci, per misurarci con qualcosa che in seguito poteva prendere nuove forme.

Il tuo spazio su Radio India, «Persone», è un lungo dialogo a due che tocca tanti temi in modo anche intimo.
Ho molta ammirazione per chi fa la radio, io per chiudere una puntata ci impiegavo tre giorni: chiacchieravo con la persona, rimanevo coi pensieri di quelle parole e riascoltavo tutto prima di iniziare il montaggio inserendo una parte musicale che mi era suggerita dai nostri discorsi. Gli inizi sono stati faticosissimi, non avevo mai montato prima, sbattevo la testa contro la tecnica. Eppure in quella che passerà alla storia come la Fase 1 questo lavoro ha avuto su di me un effetto calmante. Era come ricamare, montare mi teneva concentrata, dovevo trovare il punto esatto e per farlo mi isolavo delle ore, era uno sforzo che mi dava serenità.
La prossima settimana Radio India sospende le trasmissioni, cosa accadrà  in futuro?
Ci stiamo ragionando, alcune rubriche non avrebbero più senso in questa nuova fase, vogliamo capire se coi debiti protocolli possiamo fare delle dirette insieme, anche fisicamente, o da soli in uno spazio che nel teatro India sarà riservato alla radio. Pensiamo che sia importante sviluppare questa esperienza, vorremmo rendere la radio uno strumento duttile per confrontarci coi diversi scenari che si apriranno trasformandola via via che cambierà il nostro rapporto col tempo che viviamo.

Vedi un’ affinità tra la radio e il teatro?
La radio per me è un po’ un sottofondo, l’ascolto mentre faccio qualcos’altro che non richiede troppa concentrazione. Però può produrre un incanto che cambia il ritmo di quanto stai facendo, lo monopolizza, e questo a volte succede anche col teatro. Non ci ho pensato mai, ma Nekrosius, quando lavoravo con lui come assistente diceva che di uno spettacolo restano in mente cinque minuti, ci si aggancia a un dettaglio, e lo stesso vale per la radio. C’è poi qualcosa di anacronistico nei due mezzi, una mancanza e una continuità.

Nella fruizione la radio occupa però uno spazio individuale, il teatro ha invece una dimensione collettiva che come altri settori dello spettacolo, il cinema, la musica, è stata messa in crisi dal virus. Le sale cinematografiche faticano a riaprire, proliferano le piattaforme, e i teatri che in più hanno la presenza dal vivo dei loro protagonisti si trovano davanti ostacoli ancora maggiori. Si parla di teatro online, tu cosa ne pensi?
Ho grande rispetto e la massima comprensione per chi sceglie quel tipo di strada, così come per ogni differenza che sia sempre all’interno di atteggiamenti responsabili, con l’uso di mascherine ecc. Capisco anche la necessità di non creare un vuoto di memoria, ma se penso al teatro online non riesco a metterlo in rapporto a me. Ci sono gruppi la cui ricerca va già in una direzione «immateriale», per i quali la scelta digitale può essere più semplice. Il punto allora è: cosa fare nel frattempo che le cose si sistemano? Si può aspettare e studiare. Ecco perché il l’aiuto economico pubblico è fondamentale, l’arte è anche ricerca non solo produzione e manufatto, ma questo dovrebbe valere sempre non solo in emergenza. È un problema che esiste da prima, come per molte altre cose la pandemia ha esasperato una situazione già sbagliata e si sta rischiando di accumulare altri sbagli. Credo che si dovrebbe far saltare la regola dell’algoritmo e offrire un supporto a tutte le persone che lavorano nel settore al di là di quanto si produce. In Germania per la crisi è stato stanziato a favore della cultura un fondo molto alto, e allora un regista come Ostermeier può permettersi di dire che vuole un teatro pieno per non deprimere sé stesso e gli attori, e quindi non aprirà finché non sarà possibile. Il sistema in cui si lavora è determinante specie per mantenere vive le differenze. Qui non sono permesse, le strutture piccole sono messe ai margini in favore dei teatri nazionali però è proprio nei luoghi indipendenti che cresce la ricerca, che si possono prendere dei rischi, fare sperimentazione, affermare nuove scoperte. Forse è un discorso utopistico ma sono convinta che dovremmo usare questa situazione per modificare quanto non funziona nel nostro sistema teatrale.

La paura che si è creata nei confronti dei teatri o delle sale sembra riflettere un generalizzato timore vero lo spazio pubblico, la dimensione sociale di cui con le dovute attenzioni dobbiamo riuscire a riappropriarci.
C’era un esercizio che facevamo alla scuola di teatro in cui dovevamo creare una «bolla» intorno ai nostri corpi e quando qualcuno si avvicinava troppo alzavamo la mano. Per ogni persona si sentiva una «giusta distanza» che poteva cambiare da uno all’altro, che non era solo una questione di centimetri ma di sensazione, di desiderio. È un tema che mi interessa molto questo della distanza, e che appartiene alla mia ricerca teatrale, riguarda la presenza e cosa ci unisce a un pubblico dal vivo, e perciò adesso anche cosa significa l’impossibilità di farlo. Poi è vero che la distanza tra i corpi cambia da un paese all’altro secondo le abitudini culturali.

Per voi come compagnia cosa si è interrotto col lockdown?
Dovevamo essere al teatro India dieci giorni e per la prima volta con un testo non nostro, Chi ha ucciso mio padre di Edouard Louis. Avevamo anche molte date all’estero con Reality, io e Antonio teniamo in repertorio tutti i nostri spettacoli cosa che ci permette di viaggiare negli anni insieme alle nostre creazioni, che non significa cambiarle ma infondergli il sentimento di quando le viviamo, con noi due che siamo diversi come mutano le figure delle nostre storie.

Che affiorano anche dal cinema, penso al riferimento a «Deserto rosso» in «Quasi niente».
Abbiamo riscoperto Deserto Rosso quando stavamo lavorando a Il cielo non è un fondale. Ci piaceva il personaggio di Giuliana – nel film interpretata da Monica Vitti, non comprende la realtà ma è vitale, esplosiva, riesce a esprimere contraddizioni profonde. È una di quelle «figure fragili» che sono state fin dall’inizio della nostra collaborazione a centro dei nostri lavori. Il testo di Quasi niente però è autonomo dal film, Giuliana esprime i nostri interrogativi su di noi, sulle nostre fragilità. Adesso stavano lavorando a un nuovo spettacolo ispirato a Ginger e Fred di Fellini, che è stato il punto di partenza per una ricerca sulla coppia artistica e sul senso di un’arte fuori del tempo in una società che tutto consuma dentro le regole del mercato. È strano perché io quando uscivano i film di Fellini andavo a vederli ma non mi parlavano, ero più legata a altro, al cinema tedesco, a Herzog, a Fassbinder. Poterlo rivedere è stato molto bello, è un po’ come la seconda vita di cui parla François Jullien , in cui si rimettono in gioco le nostre esperienze.