Daria Bogdanska, la vita e i fumetti colorati di nero
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Daria Bogdanska, la vita e i fumetti colorati di nero

Intervista L'artista polacca trasferitasi in Svezia parla del suo «Nero vita», da Mesogea

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 aprile 2022

Immersi in un sistema economico che accentua le disparità, osserviamo macroscopici flussi migratori tra continenti, spesso tralasciando quelli che esistono all’interno dei confini europei. La mobilità lavorativa, soprattutto tra i giovani, è invece molto diffusa tra i paesi vicini e sarebbe cosa lunga e difficile individuare i motivi per cui si parte da alcuni per stabilirsi in altri. Di certo quella dell’expat non è quasi mai una scelta facile, né un’esperienza scontata. Nel 2013, Daria Bogdanska lascia la Polonia per continuare a studiare in Svezia; è una giovane fumettista che agli studi deve affiancare un’attività lavorativa. L’autrice è ospite in questi giorni del neonato «Baba Jaja Fest» di Roma; il suo Nero vita (Mesogea, 2019) è il racconto autobiografico delle conseguenze complicate di questa scelta, tra legami sentimentali vecchi e nuovi, aspirazioni incerte e la determinazione di vincere la battaglia contro lo sfruttamento e l’ingiustizia salariale.

Daria, hai cambiato paese per il bisogno personale di continuare a studiare. Hai scelto la Svezia e lì hai iniziato a lavorare. Quando hai capito che ne sarebbe nata una storia a fumetti?
Non subito. Sono venuta in Svezia in parte perché ho sempre amato fare fumetti, in parte perché non ho finito gli studi e volevo disperatamente ricevere un’educazione formale e sapevo delle Volksuniversitetet in Svezia, dove organizzano corsi per adulti anche in assenza di titoli. A scuola ci facevano disegnare ma non ero molto creativa proprio perché ero stanca e preoccupata da quello che mi accadeva al lavoro, quindi ho iniziato a disegnare la mia storia per consegnare i compiti che ci venivano assegnati. Sono andata a scuola per creare storie a fumetti e ho finito per disegnare la mia, ma non ne ho visto le possibilità subito. La vera decisione è arrivata alla fine del conflitto con il sindacato. Ero molto delusa e arrabbiata e credo che questo mi abbia motivato a concludere e a pubblicare la storia per portare l’attenzione su questo argomento.

Il denaro è uno dei temi centrali nel tuo libro, come nella vita di tutti i giorni. È il fulcro della civiltà occidentale, lo amiamo e lo odiamo. Come si rapporta il personaggio di Daria a questa realtà?
Io non lo odio affatto, anzi! Scherzi a parte, ho un approccio materialistico alla questione. Non ci si può chiedere se ci piacciono o no i soldi, poiché non sono qualcosa che si può scegliere, come il fatto di avere una casa o la salute. Abbiamo bisogno e dipendiamo dai soldi, cerchiamo di ottenerne abbastanza per vivere, che ci piaccia o no. Daria ha lo stesso mio approccio. Avevo bisogno di un lavoro in Svezia e quando ho capito che guadagnavo la metà di un lavoratore svedese, non ho potuto lasciar perdere. Non avevo scelta, dovevo pagare l’affitto. Per gran parte della mia vita non ho avuto soldi e mi sono dovuta adattare, adesso ho un lavoro e uno stipendio giusto, ma la paura di spendere troppo o che i soldi non mi bastino non mi è passata.

Nel tuo libro si parla di come la diseguaglianza salariale riguardi anche i datori di lavoro immigrati. Questo suggerisce che le relazioni di potere non solo legate solo alla razza ma, di nuovo, ai soldi, come è chiaro dall’incontro con la giornalista Johanna. Come hai reagito alle sue rivelazioni sul racket, quanto hai realizzato la complessità di questo sistema?
Non mi ha poi sorpreso troppo, ma volevo andare in fondo alla questione. Come dici tu, quando pensiamo alle relazioni di potere ci concentriamo sulle differenze visibili. All’inizio è sempre più semplice semplificare i problemi complessi. In molte situazioni la razza e la classe sociale sono un fattore decisivo, ma nelle questioni lavorative, lo sfruttamento raramente è solo un fatto di pelle o etnia. Lo sfruttamento salariale riguarda il denaro; questo è quello che succede sul mio luogo di lavoro, nel libro. Migranti con i soldi o provenienti da classi sociali agiate non si fanno problemi a sfruttare lavoratori del loro stesso paese. Il loro accesso a una forza lavoro meno costosa diventa una specie di capitale. Sono stata testimone di altri casi, qui in Svezia. Per due anni ho aiutato un gruppo di addetti alle pulizie polacchi, sfruttati dai loro datori di lavoro, una coppia gay polacca. L’equazione è semplice: nel capitalismo se c’è la possibilità di sfruttare qualcuno, si sfrutta, non importa se è svedese, polacco o bengalese. Quindi sì, non dovremmo mai dimenticare il ruolo dominante dei soldi quando parliamo di relazioni di potere. Nel capitalismo puoi essere oppresso e oppressore.

Spesso lavorando, ci si accorge che le condizioni e la retribuzione sono pessime eppure, avendo bisogno di soldi, si continua a lavorare, anche consapevoli che finché saremo disposti ad accettare questo sistema, le cose non potranno che peggiorare. Nel libro sembri suggerire che la mobilitazione è l’unica possibilità per smarcarsi dallo sfruttamento. È così?
Sì credo che organizzarsi e mobilitarsi sia l’unico modo per cambiare questa spirale dal basso. Dico spirale perché quando troviamo un lavoro ingiusto pensiamo che ne troveremo uno migliore in seguito, ma ovviamente continuando così-cioè accentandoli-non ve ne saranno mai migliori. Cerchiamo soluzioni a livello individuale, ma in realtà si tratta di un problema di sistema, quindi è bene collegarsi e unirsi nel tentativo di migliorare le nostre condizioni. Inoltre, organizzarsi tra persone che hanno gli stessi interessi e preoccupazioni materiali, vuol dire provare a diventare una società diversa. Il cambiamento viene dal basso, ma non improvvisamente, non c’è un momento giusto nella storia; siamo noi che dobbiamo imparare a cambiare le cose e non è né semplice né immediato.

Ci sono tanti personaggi nel libro, così come nella tua vita a Malmö, tutti molto ben caratterizzati. Hai lavorato con un diario per annotare quotidianamente le loro caratteristiche e i loro pensieri?
Assolutamente no. Per avere disegnato un’autobiografia sono pessima a scrivere diari! Quando ho iniziato a lavorare sul libro i ricordi di quel periodo erano ancora freschi ed erano ricordi di giorni molto importanti della mia vita. Caratterizzare i personaggi è stato semplice perché avevo sentimenti forti verso ognuno di loro, molti dei quali sono ancora miei grandi amici.

Il tuo libro tratta questioni molto concrete, ma tocca anche i sentimenti e il tema delle relazioni. Che influenza esercita la precarietà economica sulla nostra vita emotiva?
È una questione molto interessante, perché di getto risponderei che non ha nessuna influenza e invece ho appena detto sopra che tutto nelle nostre vite è legato all’economia. Certo le relazioni amorose danno quella sensazione di unicità e magia che le rende difficili da accostare a fattori materiali. Ma accetto la tua provocazione; la mia precarietà era comunque attenuata dal fatto che fossi innamorata di uno svedese e che avessi amici svedesi, i quali pur conducendo vite molto simili alla mia, mi hanno aiutato e indicato la via, guidato attraverso la rete di contatti e attraverso il «sistema». La precarietà ci influenza eccome; pensa a quel che si dice dei millennials: che sono in costante movimento, che cambiano lavoro, partner etc. Mi chiedo in che parte sia la realtà circostante a determinare questo nostro modo di viverla, se non sia la realtà materiale a influenzare il modo in cui rispondiamo all’incertezza, alla consueta temporaneità. Forse non siamo così del tutto e ci raccontano così per giustificare le disuguaglianze e la precarietà, ma è anche vero che questo è il mondo nel quale siamo cresciuti e abbiamo dovuto affrontare la precarietà e la transitorietà materiale, non solo a livello pratico, ma anche psicologico. Forse ci siamo semplicemente abituati, o forse addirittura abbiamo accolto questo stile di vita.

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