…Morte non mi ghermire ma da lontano annùnciati e da amica mi prendi come l’estrema delle mie abitudini…

Una frase che ha accompagnato la mia vita dai 18 anni in su: era uno di quei cartoncini, si chiamavano i trigesimi, a volte con la fotina che annunciava la morte di qualcuno alla parentela e alle amicizie tutte.

RILEGGENDOLA oggi a anni di distanza, improvvisamente assume un significato altro e, da fatto privato e personale, si trasforma (per trovare un senso che non avevi mai colto, comprendi perché zia Gianna e zio Pasqualino la scelsero per la morte di Paolo, il loro unico figlio, rapito a 18 anni in modo assurdo e insensato, ma c’è mai un senso possibile nella morte di una persona giovane?). E continuando a leggere ripercorri gli anni, ripercorri il dato che per le persone che hai e ti hanno amato questo andarsene improvviso è stata la norma. E ti riprende il senso di solitudine, l’angoscia, il silenzio nel quale sei stata costretta a chiuderti perché ormai non c’erano più risposte possibili, non c’era più tempo: ripensi alle tue reazioni di allora, a come rimpiangevi il tempo mancato, quante volte ti sei detta se l’avessi saputo forse avrei fatto così, avrei intensificato e moltiplicato i momenti di vicinanza rinunciando a impegni rinviabili, ripensi a quante volte hai pensato che per chi resta è il modo peggiore.

E SCOPRI UNA NUOVA sensazione: in fondo quella stanchezza che da tempo ti accompagna, quel tuo mondo che pian piano si è spopolato sottraendoti le persone più significative, ponendoti in una condizione di estraneità parziale alla vita quotidiana, la cui memoria condividi solo con te stessa, tutto ciò compone uno scenario in uscita. E allora pensi che forse sapere, avere la possibilità di… controllare – non è la parola giusta ma mi è difficile trovarne un’altra – nel senso che non di un controllo si tratterebbe ma di un autoaccompagnamento in un percorso difficile e accidentato che potrebbe permetterti di andartene senza fare troppi danni a chi vuoi bene. Questa può essere una soluzione possibile.

E TORNI A PENSARE, morire sì non essere rapiti… E poi come per caso un pensiero ti attraversa, una sensazione quasi fastidiosa: ma in fondo milioni e milioni di persone, uomini, donne, bambini e bambine, parte consistente dell’umanità non viene costantemente rapita, ghermita dalla morte? A chi questa si annuncia in modo amicale e, in fondo, naturale? E allora ti rendi conto che anche nella morte, in questa esperienza insieme assurda e profondamente naturale, umana, esiste una differenza profonda, quella differenza che nasce dall’appartenenza di classe, dall’essere parte integrante della classe dominante.

E SÌ, PERCHÉ nel momento in cui decidi che l’evento può e deve essere condiviso, allora scopri un mondo altro: quello delle relazioni, della condivisione e della reciprocità del riconoscimento.

Così tutto sfuma, e Ungaretti e Leopardi si avvicinano, perché sì, «piacer figlio d’affanno». E nella possibilità di condividere l’esperienza dell’accompagnamento ti ritrovi, forse cambiando la tua direzione, il tuo punto di vista, ma comunque ti ritrovi e inizi un percorso «altro», difficile ma condiviso, e che ha diritto d’esistere.

E MENTRE TU sei in questa condizione nel mondo e in Europa si parla di migranti e la politica ruota tutta intorno a loro, in fondo al di là di ogni bugia contingente, il problema da risolvere è semplicemente quello di come liberarsi di loro senza che ciò disturbi la nostra vista.
Senti come non si parla più di persone vere in carne ed ossa, con sentimenti e desideri, dolori e gioie, ma di un’alterità che non si definisce mai e alla quale non si da mai il valore di persona ma di cosa o accidenti di cui liberarsi in modo starei per dire indolore.

EPPURE TU SAI che non è così: a lungo hai ascoltato i racconti delle donne migranti, non sempre sei riuscita a sopportarli perché devastanti, e hai chiesto di interrompere e di farli a più riprese. Sono racconti di donne che urlano un dolore impossibile: quello di non sapere mai se la sera il figlio tornerà, se aprendo l’uscio di casa troverà il corpo del figlio o del marito accartocciato per terra senza vita.

E ALLORA PENSI che la negazione del loro dolore, l’impossibilità di viverlo come possibilità di scambio vitale, come altro polo della contraddizione che naturalmente compone l’umano esistere, è il vero problema politico che oggi si pone: la politica europea è negazione non solo e non soltanto del diritto individuale, certamente di origine occidentale, e, forse, poco comprensibile per persone provenienti da altre realtà: è sopruso ed eliminazione di ogni alterità possibile nella direzione che, come diceva Foucault, dovremmo mettere al centro la relazione, duale, multipla e allargata, oltre e al di là del diritto singolare.

Relazione che solo le donne, per loro stessa natura, possono assumere come centrale, abbandonando il terreno della falsa contrapposizione -o del dialogo il che è lo stesso- con il maschile, proponendo un modo altro del riconoscimento del valore della relazione come possibilità di governare davvero il proprio esistere nella relazione con l’altro, altra da sé.

TORNA PREPOTENTE il tema dell’autodeterminazione dei e sui corpi, vero nodo centrale che continuamente viene negato da un maschile – anche da quello che apparentemente si presenta disponibile – perché destabilizzante e comunque foriero di cambiamenti continui…

E INVECE la questione sta proprio qui: senza autodeterminazione non è possibile incontro, reciprocità e riconoscimento. Spiace vedere donne che inseguono Papa Francesco come se fosse riferimento politico dalla parte delle donne, spiace proprio perché la chiusura sull’autodeterminazione dei corpi e la riproposizione del valore della maternità altro non segnalano che una condizione di subalternità femminile, di un’esclusione dal mondo della decisione e del confronto reale per una trasformazione della politica che permetta a tutte e tutti di esistere e contare, e di assumere il governo del proprio sentire e di essere nel mondo.

CREDO CHE OGGI a noi come donne questo venga richiesto: assumere fino in fondo l’alterità del linguaggio, centralizzare e proporre una politica capace di tenere sempre viva la relazione fra vita e non vita, consentire al dolore di esprimersi ma anche di sciogliersi nel doppio che continuamente ci governa; e in questo sciogliersi riproporsi come gioia e vita, sapere che un potere non può per sua stessa natura negarsi, ma continuamente deve essere costretto a misurarsi con l’altro, altra da sé. E che in questo misurarsi, nel mantenere sempre aperta la contraddizione, c’è forse una possibilità di sopravvivenza dell’umano.

 

*Assunta Signorelli ci ha lasciato, dopo una breve feroce malattia. Psichiatra basagliana, militante femminista, partecipe delle tante battaglie a sinistra sempre su posizioni di radicale intransigenza e umanità, non aveva mai smesso di portare la sua parola e le sue posizioni nei convegni scientifici come nei centri sociali e nelle assemblee politiche. Una fotografia in prima pagina del New York Times la mostra ad Atene, con la Brigata Kalimera. Ma i suoi capelli argentei, le sue camicette viola, compaiono in un’infinità di manifestazioni e battaglie “a fianco delle ultime e degli ultimi”. Questa è la lettera che ha inviato in occasione dell’ultima assemblea fiorentina de L’altra Europa, a cui avrebbe voluto partecipare e non poté, così che le sue parole furono lette – con la voce che si rompeva nella gola – da Antonia l’amica a cui le aveva affidate. Testimoniano il suo coraggio e la sua generosità. Assunta sarà salutata da chi le vuol bene lunedì 6 novembre, alle 15, all’ex Op di Trieste, l’Ospedale psichiatrico in cui incominciò la sua battaglia, nel Parco di San Giovanni (che lei avrebbe voluto ribattezzare “di Santa Giovanna”).  marco revelli