Suona quasi come un tardivo omaggio allo sguardo, o un ultimo appello all’occhio perché affianchi finalmente l’orecchio e presenti anch’esso i suoi doni, l’ultimo libro di Patrizia Valduga, commissionato da Massimo Cacciari per la sua collana del Mulino, Per sguardi e per parole (pp. 125, euro 12,00). La figura di Gesù, così come si presenta nelle varie versioni della Cena in Emmaus, domina una scena affollata di citazioni, rimandi, parafrasi, evocazioni, prestiti, rinvii, da Caravaggio a Pontormo, da August Sander a Tadeusz Kantor a Cornelius Gijsbrechts e ancora a Buñuel e a Matte Blanco: al centro, un Gesù inchiodato al destino di non venire riconosciuto.
Lo snodo fra il punto di vista della ragione e il punto di vista del sentimento è uno degli approdi di questo libro in cui Patrizia Valduga legge nella «figuralità» quel di più di senso che fa di un testo, o di qualunque manufatto, un’opera d’arte: «dalla soglia minima del non letterario – il linguaggio della scienza e della pura ragione – alla soglia massima del non comunicativo – il sogno».
Di intelletto e di sragione è fatto anche l’ultimo assemblaggio di versi tratti da raccolte precedenti e pubblicato da Einaudi con il titolo Poesie erotiche (pp. 273, euro 16,00) dove la finale «Confessione di una ladra di versi» spiega la irrinunciabile aspirazione di Patrizia Valduga a far sì che tornino a sé, come in «una restituzione d’amore», le parole dei poeti amati, cui lei consente di sopravvivere, una volta di più, sulle sua pagine, dove li deposita con un gesto di gratitudine.

Due cose ti invidio soprattutto, i tuoi rimari e la tua collezione di grandi poeti che leggono le loro poesie. Mi parli di questi tuoi zibaldoni, di come sono nati, e delle voci che hai collezionato?
Ma te li regalo, Francesca! L’unico possesso che adesso conta per me è quello mentale. Sono tante le voci che ho messo insieme nel tempo, cercando nei miei viaggi, e importunando parecchie persone. Sai che ho anche John Berryman e Vladimír Holan? Sono piuttosto rari; gli altri no. Ho cominciato a ricopiare nei quaderni neri tutto quello che mi piaceva molto prima di leggere l’insegnamento di Daniello Bartoli: «silva rerum et sentenziarum paranda est». La prima con tanto di indice risale al ’75. C’è tutto quello che ho letto lì dentro. E anche se ho quasi smesso del tutto di ricopiare, non potrei separarmene mai. Fra le voci che mi sono più care c’è quella di Raboni, naturalmente. Ma anche quella di Pound, e quella di Brecht.

Hai scritto di appartenere per vocazione e per destino agli «ectoparassiti», ovvero a chi si accontenta di prelevare dai testi altrui senza pretendere di entrarvi troppo a fondo; poi, maneggi i versi rubati con il dovuto riguardo. Quale contatto con quali poeti credi abbia modificato più significativamente quel che di originario c’è nella tua poesia?
Ti sono molto grata di citare le Confessioni. È l’unica cosa nuova che c’è nel libro di Einaudi: nessuno ne ha parlato, ma tutti le hanno usate, o per sproloquiare sulla mia sessualità o per darmi della ladra tout court. Penso che di originario, in chi scrive, ci sia soltanto la mozione a scrivere, e che si scriva con quello che si è letto. Ho cominciato con l’innamorarmi di Tasso; poi di Marino, dei quaresimalisti del ‘600, e Pascoli, Prati, Belli, Porta… Adesso sto solo con Raboni e con Flaubert: hanno tutto quello che mi serve.

Tu intendi la poesia come uno scarto dalla lingua comune, o come una immersione vigilata nella sua fisicità più remota?
Domanda difficile: forse tutte e due le cose. Porta fa parlare una prostituta con le parole delle prostitute, con le parole di quella lingua «parlata» che andava a imparare alla scuola del Verzee. Perfetto, realistico; ma le prostitute parlavano forse in ottave di endecasillabi rimati? Se lo scarto di cui parli è la forma, la poesia dà nuova forma, vigilando, a una materia sonora che può essere informe, o formalizzata o standardizzata.

Einaudi ha raccolto in «Poesie erotiche» versi presi da varie raccolte, ma non da «Medicamenta», che è dell’82, e dove già la tua vena sensuale era pienamente esposta, sebbene non con la stessa beata, o dolorante, spudoratezza con cui ti saresti espressa più tardi. Cosa senti che è cambiato di più nella tua poesia da allora?
Di Medicamenta non sopporto più l’esibizione di letterarietà. Davanti a tutti quei «qual, tal, lor, amor…» provo raccapriccio. Ero giovane, avevo paura, volevo piacere, mi nascondevo dietro la convenzione. Adesso sono vecchia, ho ancora paura, ma non certo che i miei versi non piacciano… Mi basta che piacciano a me.

Hai sempre prediletto la forma chiusa, e le hai sperimentate, mi sembra, tutte. Come sempre, anche nella composizione dei versi sono proprio i vincoli imposti a incoraggiare e suggerire le più azzardate libertà. Sei d’accordo?
Completamente. Ho scritto una volta da qualche parte che la prigione della forma è la più alta forma di libertà. Spero di avere aggiunto che era una citazione da Stefan George: «Strengstes maass ist zugleich höchste freiheit», il metro più rigoroso, più severo è al tempo stesso la libertà più alta. Perché è l’ostacolo che dà forza, è l’impedimento che dà coraggio. Almeno per me è sempre stato così: un metro severo mi costringe a cercare, a usare parole che non avrei mai pensato di usare. E così viene fuori, si libera, qualcosa che mi riguarda e mi sorprende, che mi aiuta a capire, e che quindi mi rende più libera. Se non viene fuori qualcosa che mi sorprende – e che piacere dà questa sorpresa! – i versi li cancello, non valgono niente.

Sebbene tu attinga a piene mani da esempi del passato, la tua poesia non contempla un espediente stilistico che è invece connotante della tradizione poetica italiana, l’enjambement. Stabilire una frattura, una discontinuità fra parole che dovrebbero intendersi unite ha anche una funzione di interruzione del respiro, e quindi di raffreddamento semantico: proprio quel che non vuoi, mi pare. O sbaglio?
Non sbagli. Penso che c’entri soprattutto la mia mania di imparare a memoria, perché è molto più facile imparare dei versi senza enjambement. E voglio imparare a memoria per ciò che dicevo all’inizio: tutto quello che possiedo lo porto con me. È una citazione anche questa: «Omnia mea mecum porto».

Che un testo poetico non sprigioni immagini, ha scritto Mengaldo, è quasi impossibile. Le tue sono al tempo stesso referenziali di uno stato d’animo e evocative del poeta di volta in volta preso a prestito. Quali immagini sceglieresti come quelle cui sei più affezionata?
Non ho immagini, non so pensare a delle immagini, vedo solo con le orecchie.

Eppure, la componente teatrale della tua poesia, che risalta ovviamente soprattutto quando le reciti, è molto alta. Ricordi quanto ti piaceva Tadeusz Kantor? Il clima dominante nei tuoi versi è un po’ quello, no? Non ti stanca mai?
Colpita! Mi tocca rimangiarmi quello che ho appena detto. Kantor l’ho proprio visto con gli occhi, non capendo una parola di polacco. Cerco di cavarmela così: sì, lo ho amato, poi ho amato il primo Nekrosius, e adesso amo Ostermeier. Ecco, amo la sintassi delle loro potenti scelte figurative. E anche con la teatralità tocchi un tasto dolente. Persino persone che mi conoscono da anni, pensano che reciti, che «mi atteggi», e c’è chi è fermamente convinto che porti la veletta, io che detesto le velette e che non ho le mai portate… Ognuno vede quello che vuole, ricorda quello che gli pare e capisce quello che può. In un’intervista del 2003, Raboni ha parlato di me e ha detto: «Lo shock che è stato per me, oltre alla sua persona, la sua poesia». Quando sono andata da lui, con vestiti vintage addosso e i miei sonetti in mano, perché avrei dovuto «atteggiarmi»? A cosa? Non ero nessuno e non mi credevo nessuno, eppure per lui sono stata uno shock…

Quanto conta per te la carica semantica affidata al suono delle parole, all’urto dei fonemi?
Ah, caricare di senso nuovo i vecchi suoni… Capita a volte, non posso sapere quando, non posso sapere come, ma so che dà il più puro, il più profondo dei piaceri.