Quando il 9 aprile anche la provincia di Gorontalo a Sulawesi ha dichiarato il suo primo caso di Covid-19, l’Indonesia si è resa definitamente conto che, con 34 provincie contagiate su 34, l’illusione di aver scantonato dalla pandemia mondiale era definitivamente tramontata.

Un’illusione alimentata da dichiarazioni deliranti sulla medicina locale naturale, il clima o il buon Dio che hanno accompagnato la fase della diffusione e che ancora oggi frenano l’ammissione della gravità della situazione. Una situazione che il presidente Jokowi, capo dello Stato con grande consenso di massa, rischia questa volta di pagare molto cara.

La sfida più grossa – in un Paese che oggi conta quasi 4mila casi e oltre 300 decessi (erano 1500 a inizio aprile con 136 morti), deve ancora venire. Si chiama Ramadan e prevede che tra 20 e 30 milioni di persone si spostino per il mese del digiuno. Ma anziché vietare i viaggi, il governo si è limitato a raccomandare che chi partecipa al mudik – o pulang kampung, il rientro a casa per le feste – faccia la quarantena. Chi controllerà?

Il quarto Stato più popoloso al mondo (270 milioni) dopo Cina, India e Usa non è indenne dai rischi propri dei grandi Paesi dove la mobilità è elevata e che oggi sono esempi di buone o cattive pratiche. Se negli Usa i casi aumentano, l’India ha rinnovato il lockdown e in Cina si sta uscendo dall’incubo, l’Indonesia sembra la negazione di quanto fatto sinora in Asia in Paesi che bene o male gestiscono il virus: Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Vietnam.

Persino il piccolo Laos o il poverissimo Myanmar. Fino dagli inizi di marzo, con l’ammissione reticente sui primi casi, Giacarta – continuando a gettare acqua sul virus – si è affidata a una sorta di fatalismo della speranza, nascondendo i dati come lo stesso Jokowi ha ammesso “per non suscitare panico”. Negligenza, attendismo, calcolo politico o difesa dell’economia?

Il 10 marzo l’Oms scrive a Giacarta per spingerla ad azioni drastiche ma lo stato di emergenza arriva solo il 1 aprile. Nonostante Jokowi stia costruendo nel Paese un sistema sanitario diffuso e universale, l’Indonesia non è pronta per una crisi in grande stile.

La stampa fa i conti: tre posti letto ogni centomila persone, 8mila ventilatori in tutto l’arcipelago e pochissime strutture per terapia intensiva. A fine marzo una proiezione sviluppata da Universitas Indonesia-Bappenas spiega che, senza distanziamento fisico obbligatorio e altra misure drastiche, si potrebbe avere un bilancio tra 48mila e 240mila morti entro aprile e che l’assenza di interventi forti potrebbe portare a circa 2,5 milioni di positivi per fine mese.

Indice puntato anche sui litigi interni, manifesto dei quali è lo scontro tra Jokowi e il governatore della capitale Anies Baswedan, favorevole a misure coercitive e al blocco totale di Giacarta cui Jokowi si è inizialmente opposto. Il presidente si sarebbe – dicono i detrattori – occupato più dell’economia che della salute dei cittadini. Nel mirino anche il suo ministro della sanità Terawan Agus Putranto, un ex generale secondo cui il Paese sarebbe stato risparmiato grazie alle preghiere.