È in occasione del finissage della mostra ilmondoinfine (Galleria Nazionale, 23 gennaio, ore 19.30) che la danzatrice coreografa Cristina Kristal Rizzo presenta in anteprima il progetto VN versione in solo di Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) di Arnold Schönberg. Spettacolo di danza che si vuole svelamento e superamento dei limiti dell’immaginario in una ricerca infinita. La nuda danza e il divenire corpo diventano un processo di creazione di un mondo a venire.

Partiamo dalla fine. Il tuo ultimo lavoro VN Serenade ha spunti che vanno dall’estetica alla politica, alla danza, alla coreografia. Mi sembra si fondi su essenzialità imprescindibili: la musica, Balanchine, la rivoluzione, il presente come rivelazione, la coreografia. Cosa ti ha spinto in questo tipo di ricerca?

La questione della «fine» è un nodo importante per addentrarsi nei processi creativi di un artista, poiché una ricerca non ha mai veramente fine. Penso che esista un’opera che è fatta di linee di pensiero e di divenire del corpo che sta nel tempo e nel tempo si trasforma generando concetti, nuove visioni, eventi. Si tratta ogni volta di tracciare una scrittura, inscrivere il corpo senza pre-figurarlo, resistere al presente, tracciare una linea in mezzo all’impossibilità e credere alla sua potenza. VN Serenade è un’opera coreografica che mi ha dato la possibilità di misurarmi con un formato grande. Questa scala di grandezze, mi ha stimolato fortemente a mettere in gioco l’idea stessa di danza come rivelazione di un presente che attende ancora di essere realizzato e l’adesione a questa idea ha stabilito l’incedere dinamico, incalzante, rigoroso e divertito ad assumermi nuovamente la pura bellezza del gesto coreografico e a portarlo nei codici di un movimento contemporaneo.

Il New York City Ballet con Balanchine diventa il gioiello della cultura della danza americana dimostrando come un’istituzione all’avanguardia possa convivere senza conflittualità con l’innesto di nuovi linguaggi. La condivisione è dunque possibile? Come fanno a coesistere 11 danzatori in un ensemble?

La parola ensemble è quella che meglio esprime per me un’idea di comunità, nel senso di messa in comune dell’esperienza: è la messa in atto di una molteplicità in cui è la singolarità a emergere e a comporre la potenza dell’immagine fuori dalle gerarchie del potere. Ciò chiede una forte adesione agli interpreti, poiché non riguarda solo la sfera estetica ma soprattutto quella dei rapporti propri con l’esistenza tutta, con l’idea che una postura possa essere una forma politica dell’esistente. È dunque sempre molto delicato e prezioso il momento in cui si attiva un processo di creazione con altri corpi, si tratta di attraversare e coabitare luoghi sconosciuti, abitare spazi in cui guardarsi senza giudizio o senza narrazione. Danzare è un’azione che emancipa il corpo, liberandolo dalla dittatura della libera espressione, rivelando la materia e la sua trasformazione come soglia tra visibile e invisibile.

Parafrasando Spinoza/Deleuze, cosa può la danza?

Spesso metto in relazione la pratica della meditazione con la danza. Meditare non ci distacca dal reale, è un esercizio per praticare l’uguaglianza e io credo fermamente che la danza sia altrettanto capace di rivelarci il potenziale politico dei nostri corpi. La danza è un atto impersonale che ci libera dalla dittatura dell’io, del corpo organizzato ed efficiente: è una fuoriuscita energetica che appartiene a tutti. Spinoza dice che ognuno di noi possiede un determinato potere di essere affetto, di essere toccato, al di là del genere o della specie, quello che conta dunque è di che cosa è capace un corpo nella sua singolarità, nella sua maniera di essere e nel realizzare infinite composizioni. Cosa può un corpo? Cosa può la danza? non lo sapremo mai in anticipo.

Hai la capacità di entrare empaticamente in risonanza con chi assiste come ci fosse uno scambio di molecole. Come se creassi un’atmosfera condivisibile, è così?

Attraversare e farsi attraversare dalle tracce del tempo è una postura che produce una forma di grazia, di potenza lieve ma esatta dello stare dentro il mondo, non porre se stessi al centro di un’opera, l’opera di una vita, ma dare luogo nel corpo a un vuoto colmo di presenza, di gioia leggera per tocchi che non hanno presa, che non vogliono possedere. Toccare e farsi toccare è conoscenza e gioco di trasformazione reciproca, è un vedere senza guardare.

Cosa significa, per te, vivere tra le rovine?

È una strana sensazione quella che sento perché le rovine in verità non le vedo concretamente, forse sono nella mia testa che è attraversata anche dalla memoria di altri momenti, altre città, altri continenti. Vivo a Firenze e apparentemente è una città gioiello, ha una qualità di vita altissima, è pulita e sembra non accadere mai niente di pericoloso, è piccola e funzionale, ancora a sinistra, popolare ma allo stesso tempo molto elegante, eppure è lo scrigno perfetto del turismo globale che ha reso queste strade e queste piazze un salotto senza vita. Ogni giorno cerco di tenere bene a mente che niente è reale, tutto è impermanente, ma che questo non mi esime dal ricercare la libertà.