25 marzo 2015. Sui marciapiedi, ma anche sotto i ponti e nelle spianate dei centri commerciali. Le città cinesi si riempiono ogni giorno, verso sera, di persone che fanno danze collettive di strada. Sono soprattutto donne, anziane e di estrazione popolare.

Quelle che si trovano di fronte al grande magazzino Raffles di Dongzhimen, a Pechino, sono una quarantina. Hanno scelto di chiamarsi «troupe artistica di Nanguang» e ogni sera cantano e recitano vecchie canzoni rosse: la guerra antimperialista contro il Giappone, la fratellanza tra i popoli che compongono la Cina e la gloriosa guida del Partito. Il grande magazzino le ha addirittura sponsorizzate perché pare che attirino la clientela.
Ora però il governo ha deciso di «standardizzare» le coreografie attorno a dodici canzoni popolari, tra cui il tormentone techno-pop del 2014 Xiao Pingguo. Si dice che seicento istruttori certificati saranno disseminati per spiazzi e marciapiedi a insegnare la coreografia corretta.

La mente corre ai tempi della rivoluzione culturale, quando Jiang Qing, la moglie di Mao, impose le «otto opere modello», sostituendo le vecchie storie di mandarini e concubine dell’opera di Pechino con edificanti messe in scena a base di reggimenti di soldatesse rosse; un’estetica che oggi vive una sua rinascita nel segno del vintage. Ma oggi la nuova standardizzazione non è fatta nel nome della rettifica ideologica, bensì di una ragione molto più prosaica: si tratterebbe di venire incontro alle richieste del nuovo ceto medio, figura di riferimento della leadership, che non vuole schiamazzi in strada. Il maoismo ha lasciato il posto alle richieste dei nimby e quindi bisogna fare ordine e scoraggiare le zie antimperialiste che ogni sera recitano e cantano la loro gioventù rivoluzionaria davanti al centro commerciale Raffles; dal nome dell’imperialista britannico che fondò Singapore e conquistò mezza Asia.

28 marzo 2015. La stilista Cheng Yingfen, originaria della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, porta in passerella nella location artistico-chic della 798 di Pechino una collezione autunno-inverno ispirata ai costumi tipici della sua terra. Il sito della Federazione delle Donne Cinesi, racconta che la maison di Cheng – «Stella sulla Via della Seta» – partecipa per la seconda volta alla China Fashion Week con un’estetica che «integra la cultura tradizionale dell’abbigliamento uiguro con la moda contemporanea». «La collezione 43° Latitudine Nord – aggiunge l’articolo – presenta motivi ornamentali tradizionali dello Xinjiang e utilizza come materie prime fibre naturali e lana di alta qualità prodotte in Xinjiang».

Nel frattempo, 4mila chilometri più a ovest un uomo di 38 anni è condannato a sei anni di reclusione da un tribunale di Kashgar, Xinjiang. A sua moglie viene inflitta una pena di due anni. La coppia è colpevole di “«reare conflitti e provocare guai», riporta il Zhongguo Qingnian Bao, quotidiano della gioventù (che farà sparire la notizia il giorno dopo). L’uomo «aveva cominciato a farsi crescere la barba nel 2010», mentre la moglie «indossava un velo che le nascondeva il viso, e un burqa», racconta il giornale. La coppia aveva già «ricevuto diversi avvertimenti», scrive ancora il giornale citando funzionari locali.

Nel 2013, il governo cinese ha lanciato il «progetto bellezza», che incoraggia le donne uigure a smettere il velo e gli uomini sotto in cinquant’anni a radersi.

Biaozhunhua. Standardizzazione. Se non proprio una parola chiave, è un concetto utile per comprendere la Cina di Xi Jinping, che cerca di dare ordine alla sua crescente complessità interna e di rendere i processi prevedibili. Si mira a un’assoluta stabilità, il segreto per continuare la crescita pacifica, soprattutto mentre l’economia dà segni di rallentamento.

Il quarto plenum del comitato centrale, a fine 2014, era dedicato allo Stato di diritto. Nella distinzione anglosassone tra rule of law e rule by law, sembra proprio che la Cina scelga la seconda opzione: il sistema legale come tecnica di governo. È yifa zhiguo, cioè «governare il Paese attraverso la legge». Vuol dire che l’imperatore usa la legge come metodo, non che si pone sotto di essa. Bisogna creare un pacchetto di norme – standard, appunto – che rendano chiaro cosa si può e non si può fare.
Ed ecco le nostre coreografie di strada tollerabili a palati e orecchie borghesi; ecco i nostri abiti uiguri rigorosamente senza velo e i nostri maschi senza barba.

La standardizzazione del consentito è una forma di governance della diversità. Il sistema, come un corpo biologico, acquisisce ciò che lo potenzia, reprime ciò che è giudicato incompatibile.

È successo anche in Occidente, con la repressione dei movimenti ereticali e la persecuzione delle streghe funzionali all’affermazione di quella società borghese il cui analogo cinese è la xiaokang shehui – società del benessere moderato – dove tutti siano ceto medio soddisfatto, urbano o semi-urbano, diviso in cluster territoriali facilmente monitorabili.

Nel futuro immaginato a Pechino, le vecchie guardie rosse divenute zie anti-imperialiste sono previste solo se danzano correttamente e arricchiscono il grande magazzino Raffles; per velo e barba, non c’è proprio posto.