Passato in concorso a Venezia l’anno scorso e poi scomparso, finito fuori dai canali distributivi italiani, First Reformed compare ora in dvd (Universal, euro 9.99) in un’edizione italiana che comunque va presa in considerazione nella versione originale del film con sottotitoli, anche solo per poter comprendere appieno lo spessore, la precisione della dizione, della recitazione di un Ethan Hawk mai così intenso, così penetrante prima d’ora: tutto un lavoro di smussamento, di scarnificazione del gesto e della pronuncia attoriali, che porta gradualmente all’implosione del protagonista, il reverendo Toller, alle prese con una crisi di coscienza che parte dal rimorso per la morte del figlio in guerra, si materializza in un male fisico quasi auspicato, e proiettandosi dentro le ambagi siderali del cosmo, arriva ad abbracciare il destino della terra, spossata, svilita da un inquinamento feroce. In questo senso il film risulta di enorme attualità, tanto più in questi giorni in cui sono uscite le ultime stime riguardo le alterazioni climatiche previste per i prossimi decenni.

MA FIRST REFORMED è un capolavoro, anzi forse il film più importante del nuovo secolo, perché questo elemento ecologista non è affatto programmatico, piuttosto è il componente di un discorso vasto, anzi totale, che coinvolge l’uomo, il suo sussistere inquieto, problematico, tra i miasmi e gli scoli fetidi, il rimuginare costante, il sopraggiungere dell’amore. Magari non il film più bello, ammesso che questo aggettivo, «bello» (o «brutto»), abbia senso quando si guarda un film.

Se penso a questi ultimi vent’anni di cinema, mi vengono in mente film abbaglianti, capolavori di mesmerismo, di profondità tale da divenire vertigine, senza i quali sarebbe impossibile concepire le evoluzioni linguistiche del nuovo secolo: da Mulholland Drive di Lynch, a I Don’t Want to Sleep Alone di Tsai Ming Liang, allo Zio Boonmee di Weerasethakul o tutta l’opera di Lav Diaz, fino a Jauja di Lisandro Alonso.Ma First Reformed è il film più importante di questi ultimi anni per via della sua più ampia gittata: quindi non in profondità, e questo perché tutti i film citati in realtà arrivano a lunghezze filosofiche e immaginali abissali, probabilmente più del film di Schrader; bensì, appunto, più estesa in larghezza, secondo una capacità di investire territori diversi che arriva a comprendere così esplicitamente quello etico.

EPPURE l’ambientalismo non appare come un messaggio didattico che strumentalizza tutto il tessuto immaginativo del film – cioè quell’inclinazione del linguaggio ad andare oltre il mero discorso, la semplice comunicazione di un concetto, e a evocare quindi altri ambiti, magari angoli ignoti di universo, come in questo caso – ma è parte integrante del suo farsi estetico, del divenire del film in quanto fatto innanzitutto estetico, dotato di uno spazio e un tempo peculiari, che si svolgono secondo una forma, uno stile. È proprio la diversità dei temi ˗ il portato etico (ecologia, religione, politica) che si combina, si compenetra con quello più individuale (la crisi esistenziale, la malattia, l’amore), anzi rappresentandone la base materiale, l’ecosistema su cui esso si può distendere ˗è questa varietà di motivi il terreno su cui l’opera paradossalmente si compatta, tanto più sul piano formale: vige l’osmosi, un travaso costante tra queste sfere di senso, che portano a un film dal lirismo laconico, tendente al bianco (al vuoto) dei nevai, delle tende immobili alle finestre, all’austerità di chiese e sacrestie, saloni nudi, adorni solo di ombre, di freddo, in cui all’improvviso accade la danza.

NEL SILENZIO vibrante, protratto, della stanza, Mary (Amanda Seyfried) si adagia sopra Toller, vi aderisce restando a occhi spalancati in un primo piano cristallizzato dei due volti di profilo, quando, all’improvviso, i capelli di lei cadono frusciando sui visi, dando vita a un volo dentro gli spazi interstellari.

Uso il termine «danza» prendendolo da Maurizio Zanardi (nel volume Sulla danza, per Cronopio), che conferisce a questo gesto la prerogativa di fare spazio, aprire lo spazio (all’evento dialettico, a una concreta immaginazione, per una nuova mappatura dell’esperienza) nell’asfissia del contemporaneo: è il sorvolo cosmico, restando una sull’altro, prima di ripiombare sulla terra desolata, deturpata.[ Si tratta di un momento eminentemente cinematografico, epocale: attimo di apocatàstasi in cui tutto ciò che di essenziale sia stato prospettato, rappresentato nel cinema degli ultimi tempi, torna in un lampo cinematografico, in un piano di puro sgomento. Il movimento inatteso, sonante dei capelli, che apre, come una violenta penetrazione di retina, uno spiraglio quadrimensionale in cui sembra risuonare armonico e sognante il «vidi» borgesiano; quello dell’aleph dentro cui scorgere «il popoloso mare», «l’alba e la sera», «i sopravvissuti di una battaglia in atto di mandare cartoline», «un tumore nel petto», «il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte».

TUTTO NATO da un gesto di straordinaria imprevedibilità ed esattezza, se non reticenza (Zanardi parla di ritegno), che è il gesto cinematografico di Schrader: essenziale, anzi quintessenziale (frutto di una selezione di forze e forme che vi vengono possedute), all’insegna di una poesia, di una luce disperata e rastremata, anche quando parte il secondo stupefacente passo di danza, quello della macchina da presa che vortica intorno al bacio dei protagonisti, ancora nel vuoto della stanza, fino all’ulteriore, accelerato scarto, ancora un cambio di passo su quello che già era stato un cambio di passo: l’interruzione sul nero, dello sguardo, questo abbaglio sul vuoto.