È in corso a Pordenone, fino al 27 maggio, presso la Galleria Harry Bertoia, nel pieno centro della città, la nuova mostra fotografica di Danilo De Marco. Defigurazione è il titolo della mostra, I tuoi occhi per vedermi quello del volume che l’accompagna, curato da Arturo Carlo Quintavalle e pubblicato dalla casa editrice Forum di Udine. Le foto presenti nel volume – nel quale compaiono testi, oltre che degli stessi De Marco e Quintavalle, di Giovanni Zanolin, Fulvio Dell’Agnese e Gian Paolo Gri – sono perfino più numerose di quelle, già numerosissime, che compongono la mostra, disseminate lungo le stanze fra i due piani della Galleria, in bianco e nero e perlopiù in formati enormi.

AD ACCOMUNARLE è il fatto di essere tutte dei ritratti: talvolta a tutta altezza della persona, altre volte a mezzo busto, più spesso ancora di soli volti. Ma alla parola ritratto De Marco preferisce la parola figura, che in effetti evoca ed esprime meglio la sua poetica e la sua concezione delle cose.
A De Marco non interessa la staticità di un momento, fissato in una rappresentazione estetica, conchiusa e definitiva. No: a De Marco interessano le persone nella loro storia e nella loro complessità, le vite, i destini, le sfumature. Ogni sua foto – sempre, e qui come sempre – è un racconto di una realtà in divenire, di cui la foto stessa rappresenta semplicemente un momento: ma è sempre un momento nel quale ci sembra di poter cogliere il senso di una vita, l’essenza di un’anima.

NON A CASO non c’è praticamente una foto di De Marco, come sa bene chi lo conosce, che non sia preceduta dalla conoscenza con la persona fotografata. Non c’è scatto cui non corrisponda, prima di tutto, un incontro, uno scambio, la costruzione di una fiducia. È proprio vero quel che dice Dell’Agnese, nel suo scritto, quando osserva che «si percepisce il lento accostamento del fotografo al soggetto, alle persone e ai luoghi» e che «questo gli vale la fiducia di chi si accosta all’obbiettivo nell’incisa immediatezza d’una conclusione di percorso. Unico livello a cui sancire un discrimine è quello di astrazione estetica, di geometria compositiva in grado di sublimare le situazioni, senza tuttavia abbandonare il terreno della realtà in cui i personaggi sono radicati».
Più di chiunque, a De Marco interessano, in particolare, gli ultimi della terra, i dimenticati dalla Storia e dalla politica, gli invisibili. E la mostra ne ritrae molti, in ogni angolo del mondo, dall’Africa all’Asia al Sudamerica, dove De Marco ha viaggiato e viaggia incessantemente: uomini, donne e bambini in fuga dai loro Paesi oppure costretti a vivere nella povertà e nell’emarginazione.

I QUATTRO ETIOPI in primissimo piano nella prima sala della Galleria, per esempio: guardarne i volti equivale né più né meno che a sentirsene chiamati in causa. Incrociarne lo sguardo impedisce di distoglierlo: i loro occhi, nei quali scorgiamo riflesso De Marco che li fotografa, contengono rabbia e dolore, ma non disperazione né rassegnazione. Piuttosto sembrano interrogarci, pur senza moralismi: ecco, la vedi la nostra fatica, come puoi pensare che non ti riguardi?

MA LA MOSTRA non è circoscritta a questo. Il suo tema è il ritratto, la figura, e ne sono presenti a decine, di ogni genere, di vivi come di morti. Persone sconosciute accanto a celebri scrittori, giornalisti, pittori, fotografi, da Claudio Magris a Peter Handke, da John Berger a Jacques Derrida, da Mario Dondero a Giancarlo Vitali ad Andrea Zanzotto. Si sente, forte, che nei confronti di ciascuno De Marco nutre un sentimento benevolo: almeno un’istintiva simpatia, ma più spesso affetto o addirittura amore.
È il sentimento che nasce dalla condivisione, se non di un destino, almeno di un orizzonte di senso. Ed è come se una fetta di umanità si fosse data convegno qui, a Pordenone, intorno a Danilo De Marco, mossa a farlo dalla sua speciale sensibilità, dalla sua forza di attrazione. Occhi negli occhi, anima nell’anima.