Non è facile partire da Sezze, nell’angolo più meridionale del Lazio, e salire l’Everest e il K2. Nel percorso di Daniele Nardi dal livello del mare fino agli ottomila metri dell’Himalaya ci sono almeno due elementi. Il primo è la roccia, che tra Sezze, il Circeo e Gaeta abbonda, e pullula di vie da scalare. Daniele ha frequentato per molti anni le falesie del Lazio. Certo, l’arrampicata sportiva è diversa dal grande alpinismo, ma la voglia di migliorarsi è la stessa. Il secondo filo passa per i boschi e le vette dei Lepini, le montagne di casa di Daniele.

«Ai piedi del Monte Semprevisa, la cima più alta del gruppo, c’è una Valle Nardi che ha preso il nome dei miei nonni», mi ha raccontato con orgoglio dieci anni fa. Quando viveva a Sezze (poi si è spostato a Latina), per allenare gambe e fiato, Daniele saliva più volte a settimana, di corsa, fino alle vette dei Lepini. Era sport, certamente, ma anche amore per quei luoghi. A chi lo andava a trovare, alpinista, giornalista o curioso che fosse, mostrava con orgoglio le foto che raccontavano il suo passaggio dei “montarozzi” alle vere montagne. Le prime arrampicate con una corda fatta in casa, il primo Monte Bianco, seguito dalle Grandes Jorasses. Poi l’Aconcagua, e dopo altri due anni l’Everest.

Non credo che Daniele Nardi sia (o fosse, cercare il verbo giusto è doloroso, in questi giorni) un campione dell’alpinismo himalayano, l’equivalente laziale di un Denis Urubko o di un David Lama. So che sulle vie normali degli ottomila si è sempre mosso con velocità e competenza, spesso superando alpinisti più titolati di lui. In condizioni estive ha salito l’Everest, il K2, il Broad Peak, il Nanga Parbat, più la cima di mezzo dello Shisha Pangma. Come racconta il suo sito, è stato «il primo italiano nato a sud del Po» a far questo.
Nel 2014, a 60 anni dalla conquista del K2, ha mostrato la sua disinvoltura ad alta quota lavorando come fotografo e cameraman per la spedizione che ha portato cinque pakistani e un italiano sulla cima. Poi si è innamorato del Nanga in versione invernale, e ha dedicato a questo sogno a 30 o 40 gradi sotto zero molti inverni della sua vita.

Tre anni fa, Daniele avrebbe potuto partecipare alla prima invernale con Simone Moro, Tamara Lunger, Ali Sadpara e Alex Txikon. Invece un litigio con gli altri lo ha fatto tornare in Italia in anticipo. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima. Uomo generoso, impegnato con l’Onu per i diritti umani nel mondo, Daniele ha avuto un rapporto difficile con gli altri alpinisti himalayani. Quando quelli nati sulle Alpi lo chiamavano «Romoletto» sorrideva. Poi, però, si sentiva in competizione con loro.

Qualche anno fa, con l’amico Federico Santini, ho girato un documentario per Rai Tre su Daniele. Ho utilizzato immagini del suo archivio, dall’Everest al Nanga Parbat. Ne ho girate altre che lo mostravano a casa sua, dai Lepini alla scogliera verticale di Gaeta. C’erano anche le immagini girate nel 2007 sul K2. La fatica sullo Sperone Abruzzi, il ghiaccio del Collo di Bottiglia, la gioia di Daniele sulla vetta, mentre telefona con il satellitare al padre. Poi il crepuscolo sulla vetta, Stefano Zavka che inizia a scendere avvolto in un piumino giallo, l’angosciosa attesa degli altri nelle tende dell’ultimo campo.

Stefano, come molti sanno, a quelle tende non è mai arrivato, ed è rimasto per sempre sul K2. Gli ultimi giorni sul Nanga Parbat raccontano ancora una volta come il filo che separa la gioia dalla morte, a quelle quote, sia terribilmente sottile.