Daniele Mencarelli, nostalgia di verticalità
Poeti italiani «Degli amanti non degli eroi», da Mondadori
Poeti italiani «Degli amanti non degli eroi», da Mondadori
Una «storia in versi, semplice, adolescente, messa in scena per raccontare l’amore nella sua dismisura». Daniele Mencarelli definisce così la sua Storia d’amore, un testo che era già stato pubblicato da LietoColle, nel 2015: il poemetto, in una versione modificata, costituisce ora la prima parte di Degli amanti non degli eroi (Mondadori, pp. 197, € 18,00). L’impulso al racconto – lo stesso che ha imposto Mencarelli anche come romanziere – sembra in effetti necessario a chi scrive, anche se si lascia continuamente correggere proprio da quello stesso elemento di «dismisura», da qualcosa che ravvivi e complichi «il comune esercizio dei giorni».
La cadenza narrativa convive allora costantemente con una certa nostalgia – sempre in agguato – di verticalità e nettezza, fino al guizzo risolutivo, nel quale può apparire persino la rima («Un giorno saprò dire tutto questo / con una sola parola, miracolosa, / dirà tutto svelerà ogni cosa»); la pulizia formale dell’endecasillabo («la via apparirà chiara senza intralci») si mescola con misure sempre compatte che lo costeggiano o lo evitano consapevolmente, mentre un lessico perlopiù medio – adatto a una «storia» che si vuole programmaticamente «di tanti» – ospita solo qualche rara, rapida accensione. Più vario, e in fondo più ambizioso, è il secondo quadro che compone questo pannello, intitolato Lux Hotel, a partire da una tessitura metrica più sgranata per arrivare fino all’ambientazione stessa: un’ambigua scena governata dal concierge e occupata da tre soldati, in una serie di fotogrammi dietro cui si intravede una sorta di apologo scomposto, fra «voci» sconosciute che arrivano dal «chiuso delle stanze» e ombre di «altri che discutono, minacciano, disperano».
In mezzo, mani di poker che paiono avere, infine, «una posta disumana». Entro una tale cornice, l’io lirico ha la funzione di straniata coscienza («niente riconosco / in questa notte maledetta»), di testimone (forse è addirittura parte lui stesso del male?) di un misfatto che resta non detto: «ma sono stato io, io / il vero spettatore, / quello che ha visto gli sfracelli del rancore, / della rabbia che brucia, la verità soffocata, / l’odio di chi non ama / se non il proprio nome». È vero, come dice la bandella di copertina, che fra le due parti del libro si apre un «affascinante contrasto». Eppure, che indaghi un amore chiamato per nome o che dia forma a una enigmatica allegoria del male storico, il problema – diciamo pure il desiderio – di Mencarelli resta lo stesso: l’oltre, l’assoluto, ciò che rinvia il lettore, in ogni caso, «più in là», trasformando ogni dettaglio, ogni «forma singolare» in un «plurale innamorato» (a volte assumendo addirittura, qua e là, le movenze della preghiera, antica sorella della scrittura poetica): «così penso ‘te’ e dico ‘Voi’, / vi parlo lasciandoti stupita, / tu non pensare a ricadute / sostanze dietro la mia lingua /una pazzia più pazza del normale, / altra è la ragione alta la Presenza, / perché sento ‘Lui’ nella tua ombra».
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