Si esigono inventiva, grande forza di volontà, abnegazione: il mercato non fa sconti e il modello di gestione delle imprese pretende da dirigenti e dipendenti completa devozione alla causa. Non è solo questione di definire pratiche o disciplinare i movimenti entro specifici spazi e tempi: non si tratta di governare i corpi, ma anche e soprattutto di trasformare le menti, di rendere manipolabili i valori degli individui in funzione dell’obiettivo finale, il profitto dell’azienda nell’arena del mercato. Ne La commedia umana del lavoro (Mimesis, pp. 166, euro 14, prefazione di Enrico Donaggio, traduzione di Ginevra Scarcia), Danièle Linhart scompagina tutte le strategie mediante cui il manager contemporaneo fa dei propri subordinati materiale grezzo da modellare.

IL PROFESSIONISTA, dotato di un bagaglio di conoscenze maturate con l’esperienza lavorativa e relazionale, viene letteralmente annichilito, ridotto all’amnesia: sballottato fra continui cambiamenti, disorientato fra trasformazioni raccontate come innovazioni tecnologiche volte a stimolare le sue più vere attitudini e la sua intraprendenza, il lavoratore si ritrova in realtà spogliato delle proprie capacità, impedito a dare un concreto e autonomo contributo, decostruito a puro materiale umano e ricostruito secondo i valori che la gestione manageriale gli imporrà.
La retorica che ricopre tale processo è proprio quella di un ritrovato umanesimo, di un’autenticità che appiana le divergenze, ricuce le opposizioni fra sfere dirigenziali e sfere subordinate: tutti umani, ci si rivolge alle sofferenze, all’emotività, ai talenti come si fosse tutti una grande famiglia in cui il manager dosa sapientemente cooperazione e competizione.

Come opporsi a una così calda vicinanza umana? Sollevato questo strato mellifluo, però, si riscopre la realtà di un’autonomia personale calpestata, di un paternalismo che minaccia ciò che l’individuo intende mettere in campo nell’ambiente lavorativo e pubblico, al fine di arrivare al nucleo più intimo, e piegarlo all’economia dell’impresa. Primo prodotto da creare è l’umanità dei dipendenti: «Non considerare la professionalità dei dipendenti – scrive Linhart – permette di escluderli in quanto attori dall’organizzazione del lavoro», generando un cortocircuito tanto più flagrante nell’epoca della performance, perché non prendendo sul serio le competenze dei lavoratori si possono piegare i loro corpi e le loro menti a oltranza, renderli flessibili e funzionali, ma si rinuncia all’apporto che essi potrebbero offrire, preferendo rivolgersi a ingegneri del lavoro che del vero lavoro conoscono poco o nulla.

NONOSTANTE si presenti come una presa di distanza dalla macchinizzazione dell’umano alla catena di montaggio, integrato al sistema e privo di rivendicazioni, quella neoliberale è una umanizzazione ipocrita, assai solidale con la disumanizzazione scientifica di taylorismo e fordismo. È profonda e convincente la dimostrazione con cui la sociologa francese affianca, pur nelle loro specificità, la strategia taylorista e la strategia manageriale neoliberista, entrambe esibite come volontà di aiutare, governare gentilmente, ascoltare, di liberare il lavoratore dei compiti onerosi di cui ora si occuperà il padrone.