Per Daniele Gatti e l’Accademia di Santa Cecilia si aprono due settimane nel segno di Robert Schumann, di cui, in due turni di concerto, verranno eseguite le quattro sinfonie (da oggi fino a martedì la Prima e la Terza insieme alla Rapsodia per contralto di Brahm), occasione che suggerisce alcune considerazioni al direttore milanese. La diversa attenzione imposta all’orchestra nell’affrontare un ciclo completo di Schumann per Gatti si riflette anche sul pubblico «che ha più tempo di entrare con maggior convinzione nell’universo romantico dell’autore, anche perché queste sinfonie non sono affatto presenti in modo costante nella programmazione».

D’accordo sull’idea di uno Schumann sinfonico precursore dei tardo-romantici, Gatti lo è meno dinanzi alla vulgata che vede in Schumann un orchestratore manchevole.
«Molto si basa sulla storiografia di fine XIX secolo: gli stessi ritocchi di Mahler, fatti in ottima fede, alla strumentazione delle sinfonie di Schumann riflettono gusto e temperie culturale dell’epoca. Non va trascurato – continua Gatti – che gli esecutori della prima sinfonia di Schumann, scritta di getto, erano quarantanove. Mendelssohn, direttore della prima esecuzione, disponeva a Lispia, esclusi legni, ottoni e timpani, di una trentina abbondante di archi, un organico assai snello».

Quelle sinfonie impegnano oggi un contingente di archi quasi doppio e Gatti ammette che «questo può impedire alla filigrana della strumentazione schumanniana dei fiati di emergere con pienezza. Per Gatti il rischio vero è l’assenza controllo: «per dar vita allo slancio romantico di Schumann – conferma – i momenti contemplativi o di maggior espressività vanno realizzati nel quadro di una linea rigorosa, non sovraccarica». Il prossimo anno la prima stagione alla guida del Concertgebouw di Amsterdam coincide per Gatti con i vent’anni dalla dipartita da Santa Cecilia, che ha diretto dal 1992 al 1997. Guardando a quel sé stesso giovane Gatti confessa di sentirne un po’ la mancanza: «anni giovanili bellissimi, di formazione, battaglie, sfide e soddisfazioni. Da Roma – ricorda – è partito il percorso professionale che oggi mi porta ad Amsterdam».

Tante cose erano diverse allora «anche a Roma l’orchestra – riprende – dopo Sinopoli non aveva avuto un direttore musicale, c’era molto da ricostruire. L’ottimo lavoro fatto, è dimostrato oggi dal livello con cui possiamo far musica insieme. Torno a Roma con grande piacere perché ritrovo la casa da cui sono partito». La sfida del Concertgebouw invece non sembra impensierirlo perché c’è una familiarità di lunga data: «la nomina arriva al momento giusto, come stranamente è già successo in passato: Roma, la Royal Philharmonic di Londra e poi Parigi. Con Amsterdam – sottolinea – tutto si è si è sviluppato senza la pressione della sfida».

Poi precisa: «non mi sono mai sentito o sottodimensionato o sovradimensionato rispetto ai miei impegni musicali, anche quando arrivai a Roma molto giovane». Pur riconoscendo che le orchestre italiane di oggi sono molto più internazionalizzate Gatti sostiene di essere stato fortunato: «all’epoca mi confrontai con strumentisti di generazioni precedenti, che avevano assorbito tradizioni e insegnamenti da tanti grandi maestri; è stato un forte arricchimento».