Autore affascinante, misterioso e prezioso. Aggettivi che in qualche modo descrivono anche il suo modo di guardare alle cose e di scriverne. Perché, in effetti, Del Giudice, scomparso ieri, sembrava assolutamente affascinato, stregato anzi, da quel che ricadeva nelle sue attenzioni, tanto che egli stesso aveva lavorato intorno alle sue fissazioni. Nell’ultimo volume di suoi scritti, In questa luce (Einaudi, 2013), che già alla sua uscita poteva apparire come una rappresentazione autobiografica e testamentaria della sua immaginazione e del suo lavoro di scrittore, parlava espressamente di «manie».
Proprio come se l’osservazione e la riflessione fossero strumenti per addentrarsi nel mistero del mondo, cioè mezzi per coltivare questo baratro fatale che c’è tra l’evidenza e l’inspiegabile. Come se addentrare lo sguardo (e non si parla solo di oggetti fisici ma anche dei comportamenti e dei pensieri emotivi e razionali) fosse un modo di scavare e far emergere l’ignoto. Un modo, anche, di contestare la banalità.

CERCANDO NELLA MEMORIA le sue narrazioni (parliamo di sei o sette volumi in tutto, tra il 1983 e il 2009) ne emerge un coagulo singolare di parole e immagini. Si potrebbe parlare di un senso acuto per le cose minute accompagnato da una specie di acribia descrittiva: azioni che però, invece di definire e isolare, legano e sfumano i contorni degli oggetti e delle superfici, degli stati sensoriali e mentali. Del resto, un gesto ricorrente nei suoi racconti è quello dell’occhio e del corpo che si alzano in volo, cercando traiettorie luminose, proiezioni cartografiche, linee invisibili.
Italo Calvino, che al contrario era piuttosto dominato dall’immagine della caduta, aveva visto nella prima prova di Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, 1983), promuovendone l’edizione, una sorta di erede e allievo della sua poetica dello sguardo; e di certo condivisero da subito interrogativi sulla letteratura molto radicali, che riguardavano la possibilità stessa del raccontare e del cosa raccontare, con quali strumenti linguistici, attingendo a quali materiali (per esempio quelli offerti dalla letteratura scientifica), e con quali altre forme di rappresentazione mediare il linguaggio letterario (per esempio la fotografia e il film).

E, PIÙ INTIMAMENTE, forse a Calvino sembrò che Del Giudice entrasse, proprio come a lui sembrava necessario sempre ricercare nell’invenzione, nel gomitolo dell’intreccio, nel tessuto dei meccanismi narrativi, nell’enigma delle traiettorie e dei legami possibili.
Basta leggere la serie dei titoli che seguirono a Lo stadio di Wimbledon, e ricordarne un poco i contenuti narrativi, per ritrovare un certo filo conduttore di questi vari temi e argomenti, fossero romanzi o racconti: Atlante occidentale (1985), Nel museo di Reims (1988), Staccando l’ombra da terra (1994), Mania (1997), Orizzonte mobile (2009).
Se c’è una tematica che cerca di farsi letteratura in questa esigua serie di narrazioni, si può facilmente individuarla in questo: ciò che interessa il narratore è l’intreccio tra il posizionamento fisico e spaziale del corpo (compreso tutto quel che esso contiene in fatto di memoria, pensiero, sentimento) e le traiettorie dell’occhio e delle sue rappresentazioni cerebrali. Ne esce così tutto un mondo altamente sensoriale, prettamente percettivo, in cui prende uno spessore davvero inusuale tutto ciò che si addensa tra l’intimità del sé, qualcosa di simile all’identità personale, e il mondo, qualcosa di simile alla realtà. Questa importante nebulosa, un po’ intangibile, a tratti invisibile, e terribilmente attraente, sembra quasi costruirsi e sciogliersi volta per volta, tesa tra la memoria e la percezione. Perché è importante questo terreno vago e instabile? Forse perché grava nello stesso spazio immateriale in cui si svolge ogni tipo di mediazione e comunicazione. Ecco dunque che la precisione, come l’opzione per una lingua esatta e mai superflua, il ritmo delle frasi, come un metronomo che scandisca i passi negli spazi nebulosi, e anche una ricercata trasparenza sintattica, che circonda i vuoti di opacità che isolano gli oggetti, sembrano tutti strumenti per percorrere il diaframma ansiogeno che separa i corpi.

E VI SI PUÒ LEGGERE anche il tentativo di dare peso e spessore a questa vacuità.
Fa molto male pensare che Daniele Del Giudice abbia trascorso gli ultimi anni della sua vita nell’apparente isolamento provocato da una malattia di cui si conoscono solo gli effetti, perché davvero si può dire che abbia dedicato tutto il suo lavoro narrativo a creare relazioni e strade percorribili tra gli spazi vuoti.