Il regista Daniele De Michele (alias Donpasta, l’economista, gastronomo e dj), presenta il suo documentario Naviganti Fuori concorso alle Giornate degli autori alla Mostra di Venezia. Con delicatezza e ironia s’interroga sulle dinamiche e le difficoltà economiche che il Covid ha fatto emergere nel silenzio del primo lockdown. Con la sua ciurma di amici, Daniele Sepe, Giulia Bonaldi e Modesto Silvestri, il regista raccoglie le riflessioni, i disagi e l’amarezza di un mondo, quello dell’arte, abbandonato a se stesso di fronte all’indigenza e al senso d’inutilità. Così con una barca in mezzo alle rocce la ciurma scala la vetta del Vesuvio in attesa che la tempesta si plachi.

Nel film ci sono vari temi che si intersecano su più livelli, come hai unito il tema dell’economia e quello dell’arte?
Inizialmente guardavo un po’ a tutte le mie passioni: l’agricoltura, la politica, l’arte e mi ponevo il problema della fragilità di questi temi. Un giorno una mia amica francese mi raccontava che in Francia durante il lockdown davano la possibilità alle grandi catene commerciali di organizzare i piccoli circuiti alimentari, il che sembrava un controsenso. Questa cosa mi ha fatto pensare a come si stava riorganizzando in generale il capitalismo nei vari settori: la scuola, la sanità, l’agricoltura e quali sono i problemi che il Covid ha fatto emergere.

Avevo intervistato Marco Revelli, Demasi, Gino Strada sulla perdita del concetto di bene comune e su come il Covid entrasse in una macchina organizzativa già avviata di sottomissione dei più piccoli. Contemporaneamente seguivo la questione degli artisti come Daniele Sepe, Giulia Bonaldi, Modesto e quando ho incominciato a montare tutta questa salsa mi rendevo conto che era troppo confusa: voleva parlare del senso di giustizia e ingiustizia, di quello che già era stato ucciso e di quello che rischiava di essere distrutto. Per molto tempo mi ero agganciato alla questione sociale e avevo utilizzato come matrice iniziale un testo che una mia amica aveva scritto su Bergamo, Nel ventre della bestia di Sara Agostinelli, ma piano piano mi rendevo conto che mancava un filo preciso.

È stato solo durante il periodo di apertura che ho capito che, molto probabilmente, la metafora che riusciva a racchiudere tutte le questioni era l’arte. Il problema più grande è che il capitalismo è entrato anche nel sistema della cultura e nel concetto stesso di creazione e di domanda: dicono quello che vuoi amare dell’arte, della musica, del cinema. Volevo mostrare i danni del capitalismo e ho scelto l’arte perché in fondo eravamo quelli più abbandonati di tutti.

Il film non ha una vera sceneggiatura, come sei arrivato alla fase finale, al montaggio?
Nessuno sapeva cosa sarebbe successo e volevo prendermi il mio tempo, vedere cosa stesse succedendo giorno dopo giorno. Quello che alla fine m’interessava era capire come si stava riorganizzando il capitale e soprattutto le resistenze, infatti, la barca presente nel film è una metafora per mostrare che gli schemi vanno rielaborati. Sulla questione della scrittura il film ha avuto sette versioni definitive puntualmente cancellate per poi ricominciare. È stato veramente complicato perché il film unisce una creazione artistica con un’indagine socio economica alla mia deformazione di essere economista. Sono stati quindici mesi di montaggio molto laborioso perché c’erano formati e mezzi diversi: il cellulare, il computer, i disegni.

C’è anche un lavoro importante che avete fatto sul suono per animare i disegni.
Sì, quello è un lavoro di Marco Saitta che è un grande montatore del suono. I disegni sono una parte fondamentale del film. Avevo delle lunghe interviste sulle teorie Marxiste con Ravelli, ma non potevo fare un film di cinquanta minuti solo con i video di Zoom e i disegni di Giulia Bonaldi avevano una grande capacità di rappresentare benissimo quei discorsi. Anche perché ero chiuso in casa e non potevo uscire per filmare. L’intuizione è stata la storia di Gina, un’operaia madre sola che si rivolta alla macchina. Per farlo avevamo bisogno dei fumetti animati attraverso il suono che è stato fondamentale per dare un senso drammaturgico a quello che succedeva.

E poi c’è il tuo personaggio un po’ clown. Questo personaggio è nato per una questione narrativa o sentivi l’esigenza di raccontare anche la tua storia?
Venivo da anni di ricerca antropologica sul rapporto con le nonne e la cucina in cui non sono mai apparso in video, né anche nel precedente film I Villani perché penso che un documentario debba reggersi in assenza del regista. Però questo è un film strano con dei personaggi eterogenei cui non riuscivo a dare una coerenza che trovavo solo nella mia testa. Nelle prime versioni del film ci si piangeva addosso e non riuscivo a centrare il fatto fondamentale che l’artista è un sovversivo, un utopista senza paure. Dovevo trovare un modo per superare questo dramma che vivevo e vivo da artista da spettacoli e che non fa spettacoli. Solo dopo un lungo lavorio interiore ho detto ok ed è stato spontaneo creare un personaggio leggero, perché il clown è il linguaggio più universale. Le disgrazie che mi succedono nel film possono accadere a chiunque e permettono di semplificare quel senso di disagio e cercare di farcela insieme. È stato un lavoro complicato perché non ne avevo voglia, ma poi mi sono divertito tantissimo.

Secondo te dopo questa esperienza pandemica, l’arte ha sviluppato i suoi anticorpi?
C’è un pessimi di fondo in questo film che è celato da un gesto di ilare provocazione fatto da gente come me, Giulia e Sepe che iniziamo ad avere una certa età e come dice Sepe le rivoluzioni culturali, teatrali, musicali o poetiche le fanno i ragazzi di vent’anni, non le possiamo fare noi. Il sistema culturale così com’è stato pensato e che lentamente è degradato, in questo momento è un po’ un canto del cigno. Non mi sembra che nessuno durante questo lockdown abbia avuto più bisogno di cultura o di arte né le istituzioni hanno fatto qualcosa per riorganizzare la filiera o migliorarla. Non so quanto il collettivo dei lavoratori dello spettacolo sono riusciti a ottenere con le loro azioni, benché fosse lampante che l’arte debba essere protetta come qualsiasi altro mestiere. Quindi c’è un pessimismo rispetto alla realtà in quanto tale, nel senso che l’arte è mercificata e risponde alle leggi del mercato che funzionano male anche nella sanità, quindi non vedo perché dovrebbero funzionare bene per la cultura.

Da questo punto di vista non mi pare che il lockdown abbia insegnato niente a nessuno. L’ottimismo cui voglio attaccarmi è che ogni crisi crea delle libertà di espressione, cioè in tutti quei momenti di grande dramma storico per miracolo, magie strane, corti circuiti è nato qualcosa di nuovo. Uno dei movimenti dal basso più interessante, in questo momento, sono le afro discendenze che stanno creando un loro linguaggio specifico. Così come tutti i movimenti femministi che stanno riscrivendo un codice diverso da una visione patriarcale, una visione antica