Lento, inaffidabile, a tratti malinconico: nelle sue monumentali Vite Giorgio Vasari ce la mette davvero tutta, con omissioni e sottili calunnie, per trasmetterci un’immagine ridotta di Daniele da Volterra e sfigurarne il valore. Lui, il pittore veloce che in poche settimane aveva licenziato immensi affreschi, contrapposto all’altro, il temporeggiatore sanzionato da clienti esigenti per la sua incapacità di gestire importanti commesse. Come se ciò non bastasse, la gloria di cui Daniele godette presso i contemporanei, fondata perlopiù sulle grandi decorazioni di chiese e palazzi, risulta oggi difficilmente verificabile. Il tempo ci ha messo del suo e una porzione notevole di quelle opere è andata perduta oppure versa in pessime condizioni.
Non si può che accogliere, quindi, con favore la mostra Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci ospitata, fino al 7 maggio, nella Galleria Corsini a Roma. La piccola esposizione, a cura di Barbara Agosti e Vittoria Romani, regala al pubblico la possibilità di rivedere, dopo qualche tempo, due tra le massime creazioni dell’artista. Come da titolo, le opere provengono da una collezione privata senese e solo grazie al vincolo di tutela, che le accompagna dal 1979, sono sfuggite al mercato antiquario che le avrebbe sicuramente alienate ai nostri occhi e la loro bellezza risulta ancora sorprendentemente intatta.
Dopo oscuri inizi in patria, di cui non si sa molto, è a Roma che Daniele conobbe la vera affermazione. All’indomani del Sacco dei Lanzichenecchi, la città provava a riannodare i discorsi interrotti da quel fatto straordinario e tornava a essere magnete di attrazione per artisti e intellettuali. In una congiuntura irripetibile Daniele si trovò a catalizzare l’attenzione della corte papale e delle principali famiglie romane, raccogliendo il testimone da Perin del Vaga e idealmente da Raffaello.
Freschezza cromatica
Ci introduce a questa stagione il primo dipinto della mostra, Elia nel deserto. Adagiato in un angolo, il profeta si arrende docile al volere divino e con fare dimesso trova la forza per rialzare la vigorosa figura e afferrare il cibo che gli ha portato un corvo: è la fine del suo distacco dal mondo. Il virtuosismo pittorico si manifesta nelle pieghe vibranti, nelle pennellate precise, nella straordinaria freschezza cromatica. Dettagli questi che sanno ancora del decorativismo gentile di Perino e per questo hanno convinto a datare il quadro così presto.
La critica è unanime nel riconoscere a Daniele da Volterra la capacità di mantenere intatta la sua identità, nonostante l’invadenza dei grandi del suo tempo. Quello che bastava agli altri, copiare in superficie le meraviglie della Maniera, non soddisfaceva l’artista. Questi si applicava invece per comprenderne dall’interno la logica e rielaborarla secondo i suoi canoni, col desiderio di contribuire alla storia dell’arte che in quegli anni si stava scrivendo. Arriviamo così alla seconda opera in mostra, ovvero la Madonna col Bambino, san Giovanni Battista e santa Barbara. Differente per formato e per tecnica dall’altra – olio su tela quella, olio su tavola questa – ma distinta anche per ragioni stilistiche, e quindi cronologiche. In mezzo c’era stato l’incontro con Michelangelo e soprattutto la scoperta del Giudizio Universale, che Daniele studiò con intensità e rispetto. Nel dipinto, prossimo al titanismo della Deposizione dalla croce di Trinità dei Monti, la graziosità neoantica di marca raffaellesca si dissolve in un nuovo plasticismo. Nell’inesauribile miniera di invenzioni della Sistina, Daniele trova lo stimolo per iniziare una spietata semplificazione. La Vergine, dalla bellezza intatta e altera, indossa una veste di foggia classica. Sul sorriso la concessione di una sottile smorfia. Sotto il suo sguardo benevolo, prendono vita le altre figure, accomunate da invidiabile complicità: ci sono Gesù e san Giovannino, e poi santa Barbara, dall’atteggiamento astratto e innocente. Mutuando pose e gesti dal vocabolario michelangiolesco, questi orbitano intorno alla Madonna proprio come col Redentore del Giudizio, senza quella repulsione reverenziale che li allontanava dal Cristo giudice.
Come nel David del Louvre – dipinto su entrambi i lati per superare la bidimensionalità del supporto – Daniele gareggia con la scultura e pare voler prendere partito nella discussione contemporanea sul paragone tra le arti. Si conferma appassionato di scorci, cioè della possibilità che la pittura superi i suoi limiti, sperimentando il movimento e sondando lo spazio. Compresse come sono nella forzata irrequietezza di pose invadenti, le figure restano a malapena nei confini angusti della cornice. Minacciano di evaderne. Ed è proprio in questo contrasto straniante che risiede il fascino del quadro, che nella sua aspirazione all’essenzialità ha ambizioni da icona.
Coppia di riflettografie
Una coppia di riflettografie completa la mostra, restituendo al visitatore l’illusione di poter partecipare al processo creativo dell’artista. È svelata così la sua tecnica grafica. Si esibiscono davanti ai nostri occhi suggestioni, idee e ripensamenti in preparazione dei dipinti.
Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci suggerisce davvero quanta bellezza il pittore riuscì a infondere nelle sue opere, portatrici di una magnificenza che fa quasi dilatare le palpebre, rappresentative di un momento di splendore, forse il massimo, della creatività umana. Con buona pace del Vasari.