Nelle notti di «sole pesante» se tendi l’orecchio puoi sentire lo sferragliare dell’acciaio e lo stridere delle corde ossidate di una vecchia pedal steel guitar Sho-Bud. Dal silenzio si levano sinfonie che ti trascinano verso luoghi mai visitati prima dove Satie si è addormentato sulla tastiera di uno Steinway, e Stravinskij e Wagner agitano le loro bacchette passandosi uno spinello. «Alcuni di noi sono dei cercatori, dei viaggiatori… Dico addio a un vecchio amico ma do il benvenuto a uno nuovo. Non fraintendermi, io amo sia il rock che il folk, ma con Goodbye to Language cerco di superare le tradizionali progressioni di accordi per un mondo di complessità corale e armonica che non avevo mai visitato in passato. Un’opportunità di crescere, di espandere la paletta dei miei colori e provare a emozionare l’ascoltatore…».

Protetto dietro occhiali da sole e cappellino calato in testa parla l’uomo che ha forgiato il suono di alcuni dei dischi più importanti dell’immaginario pop, dagli U2 a Dylan, da Peter Gabriel a Willie Nelson e Neil Young. Daniel Lanois racconta con parole dolci il suo nuovo percorso musicale tra gli antichi strumenti della collezione del Conservatorio di Piacenza, dove ha tenuto il suo unico concerto italiano.
All’inizio degli anni ’80 fu il «filosofo» Brian Eno a chiamarlo per dare forma al suono della sua neonata «ambient music«, e dal mondo immaginifico del giovane studio rat, come si definisce lui, cominciano a sbocciare i frutti rigogliosi di una mente geniale.

Gli chiedo cosa ha imparato da Eno sulla vita, oltre che sulla musica: «Oh bella domanda. Da lui ho imparato a buttarmi totalmente in un’avventura, a imbarcarmi in un viaggio nuovo con concentrazione e totale dedizione. Una specie di fede. Sai, non puoi andare a scuola di ’illuminazione’, ma bisogna essere disposti a lasciarsi andare…».

Difficile da spiegare a parole, e non facile da ascoltare con il solo accompagnamento della pedal steel che fa risuonare accarezzando dolcemente le dieci corde e muovendo i pedali con gli stivali da motociclista. Sull’onda del successo delle sue produzioni milionarie con U2 e Dylan, nei suoi primi dischi suonava e cantava straordinarie ballate d’amore e passione, ma è con gli ultimi due album strumentali, Flesh and Machine (2014) e Goodbye to Language (2016) che le canzoni si sono sfilacciate, disciolte al sole notturno e pesante, come lo chiama lui, filtrate da strati di riverberi presi in prestito ai maestri del dub come Lee Scratch Perry e Mad Professor.

E dire che fu proprio Bono Vox a presentarlo a uno scettico Dylan, per produrre il capolavoro Oh Mercy (1989): «Bob era nervoso e con qualche dubbio sul fatto di incidere un disco molto intimo come volevo fare io. Eravamo in uno spazio ristretto, due chitarre, una drum-machine Roland 808, la stessa usata da Marvin Gaye in Sexual Healing per catturare la voce e l’essenza della canzone, e dopo costruirci tutto il resto intorno, senza nessuno della band tra i piedi». Dylan, nella sua biografia Chronicles, racconta la tensione di quei giorni in cui si sfogava andando in giro sulla Harley mentre Lanois lavorava in studio. Lui ridacchia parlando del loro comune amore per le vecchie moto. Gli chiedo se c’è una connessione tra il «famoso» incidente di Bob del ’66 e il suo del 2010 a Los Angeles: «Sai che non ci avevo mai pensato! Strano, sì… ma io ho ripreso a guidare. La mia chitarra e la mia moto viaggiano sempre insieme, una in Canada e una in California…».

Dopo il soundcheck, e dopo una birra al pub (la conversazione è avvenuta prima del concerto, ndr) torniamo al Conservatorio. Si spengono le luci e si accende il sole notturno di Lanois, che fa tremare le canne dell’imponente organo dell’ex convento benedettino: ci investe per quasi due ore una musica che confonde, che toglie certezze, senza punti di riferimento.

Non è elettronica, non è più rock, ma è musica che chiede di essere ascoltata non solo con le orecchie. Poi Lanois ci lascia con una languida ninnananna, e sorride sfilandosi finalmente gli occhiali. È chiaro a tutti che il suo corpo e la sua lap steel sono lì con noi, ma la sua anima è già lontana. Molto lontana. Goodbye to language, welcome to brave new world…