Sebbene i suoi romanzi mostrino trame spesso sorprendenti, coniugando ascendenze rioplatensi con spazi narrativi più eterogenei, insieme a una spiccata preferenza per il mondo mediorientale, Daniel Guebel – assai noto in Argentina, con più di venti libri al suo attivo – resta pressoché sconosciuto da noi (nel 2012 fu pubblicato Carrera e Fracassi, un curioso e allegro road novel, senza fortuna). La nouvelle ora pubblicata da Amos edizioni, L’uomo che inventava le città (traduzione di R. Ferrazzi e M. Magliani, postfazione di L. Marfè, pp. 96, € 12,00) rischia di venire equivocata, perché il titolo originale – La infección vanguardista – rinvia invece a una relazione tra malattia e arte che si è smarrita nella traduzione.

Più un mito collettivo
Tuttavia, l’idea di «invenzione delle città» apre, come si vedrà, ulteriori letture. Pur nella sua brevità il testo, che si delinea come una biografia immaginaria, un genere coltivato dall’autore con felici risultati, mostra un sorprendente sovrapporsi di interpretazioni. La prima – e più evidente – si associa alla rappresentazione del peronismo, tema fondamentale della letteratura argentina (nell’edizione originale la nouvelle era inoltre compresa nella raccolta La carne de Evita, con altri due testi brevi e una pièce teatrale) non certo nuovo ma affrontato più come un mito collettivo che come una dottrina politica. Il protagonista, Rafael Zarlanga, è un pittore che diventa scultore e poi architetto per seguire i «consigli» del leader, che gli affida il compito di disegnare la «città utopica peronista».

Perón agisce sempre da lontano, come una sorte di divinità distante, e Zarlanga ne diviene l’interprete, il demiurgo che dovrà creare dal nulla una realtà che si ispiri e nello stesso tempo rappresenti la volontà del Capo. L’architetto insegue per tutta la vita questo progetto, prima con un delirio di schizzi imprecisi che altri cercano di trasformare in modelli irrealizzabili, per finire a vivere lui stesso dentro di uno di quei plastici, identificandocisi totalmente.

Cominciano qui a incrociarsi le tensioni tra l’avanguardia e il progetto politico (l’«infezione» del titolo originale), tra il desiderio di inglobare la totalità dell’esperienza umana e la volontà di incidere nel «corpo» della nazione e dei suoi cittadini. L’Avanguardia tendeva peraltro già di per sé a questa identificazione tra arte e vita, e la città utopica peronista vuole fondare uno spazio in cui l’ideologia trovi la sua attuazione e vi possano vivere abitanti totalmente plasmati da quel sogno patologico. Ma la prospettiva utopica non riesce a realizzarsi, si perde in una moltiplicazione demenziale di disegni indecifrabili che tutti pensano corrispondere a un’invenzione che troverà alla fine un suo compimento, anche senza essere sorretta da una logica chiara: «Nel corso del suo lavoro Zarlanga inventò senza saperlo un nuovo genere utopico. La sua città era anti-funzionale, di modo che in linea di principio il suo schema non contemplava (almeno a prima vista) il concetto di abitabilità».
L’«invenzione» segue poi l’evolversi della storia argentina: la necessità di trovare i fondi necessari diventa ragione dei sequestri di persona degli anni sessanta, poi sarà oggetto della repressione militare, anche se i poliziotti che cercano Zarlanga lo prendono per un custode mezzo matto, divenuto quasi invisibile nella sua identificazione fisica con il modello in cui vive. Con il ritorno della democrazia, prolifereranno interpretazioni confuse e distanti dalla volontà originaria, che separano sempre più la motivazione politica da quella artistica. Il critico che curerà la mostra degli abbozzi e dei resti dei plastici sopravvissuti, esposti in un «Salone del Ritorno alla Democrazia» potrà allora affermare che «la città utopica peronista non cercava di duplicare la realtà in un altro mondo e nemmeno di sovrapporne uno a quello esistente, ma di scoprire uno spazio insospettato e riempirlo di cose mai fatte prima».

Oltre l’immaginazione
L’utopia sembra essere fallita: quel fallimento, prefigurato nella fragilità della carta e dei materiali usati per i plastici, sembrerebbe una anticipazione visionaria della contemporanea idea di installazione, di un’opera sempre in trasformazione, destinata a svanire: una celebrazione dell’effimero. Ma le trasformazioni del Grande Progetto non finiscono qui. Nella sua ultima metamorfosi la città utopica peronista diventa così un gioco da tavolo, con infinite varianti e sviluppi, che si degrada in prodotto di massa, conservando solo nella sua stravaganza una traccia dell’originaria grandezza.

Il titolo italiano apre, tuttavia, un ulteriore itinerario di lettura: il Novecento non ha visto solo la fondazione di nuove città in America Latina (Brasilia ne è l’esempio più famoso), ma anche il proliferare di città immaginarie, di città di carta: Macondo, la Santa María di Onetti, Comala di Rulfo, la Cacodelphia di Marechal, o, in tempi più recenti, la Buenos Aires sotterranea de La città assente di Ricardo Piglia o il Río Fugitivo di Edmundo Paz Soldán. L’impossibilità di inventare la città utopica segna allora anche il tramonto di quegli spazi virtuali, superati e inglobati da città reali ben più mutevoli e inquietanti, che hanno abbondantemente superato qualsiasi capacità di immaginazione.