Lo sguardo, perlopiù miope e offuscato, della popolazione bianca fa da tramite a Damon Galgut, autore peraltro non apertamente impegnato politicamente, per tradurre in una forma romanzesca i mille problemi del Sudafrica post-apartheid. A partire da Il buon dottore, il suo romanzo più acclamato, imperniato sul contrasto tra due medici nel centro ospedaliero di una desolata homeland, il rapporto tra l’individuo e la storia, e le conseguenze del passaggio impietoso del tempo sui frutti dell’ignoranza o – a volte – dell’innocenza dei singoli investono la sua narrativa.

Nell’autofiction In una stanza sconosciuta, il personaggio che porta il suo nome, Damon, attraversa Europa, Africa e India, gravato da una sorta di senso di colpa e dal peso della propria nazionalità; in Estate artica, narrazione biografica sugli anni indiani di E. M. Forster, la Storia incalza e incombe sull’indifferenza – o l’apatia – dei personaggi.

Anche nell’ultimo lavoro di Galgut, La promessa (traduzione di Tiziana Lo Porto, e/o, pp. 250, € 18,00), la Storia «non ancora addomesticata» è subita come una forza che «calpesta» gli individui. Saga familiare che copre tre decenni e in cui lo scorrere del tempo, con i cambiamenti occorsi alle persone e alle cose, è scandito da quattro funerali, La promessa rivisita i classici temi della famiglia, dei rapporti tra generazioni e tra fratelli, dell’imprevedibilità della fine, della ricerca di un conforto nella religione e della paura della morte, in maniera affatto originale, grazie a una sorta di «narratore fluido» che, spaziando liberamente dalla terza alla prima persona, connette i personaggi entrando nel loro animo, e non esita, di tanto in tanto, a rivolgersi direttamente a loro o a porre domande a chi legge.

Tra il 1986 e il 2018
L’intento di Galgut non si risolve nel moltiplicare i punti di vista, o nell’immaginare voci differenti per ogni sua creatura, bensì nel trovare «la voce del libro», e nel farla risuonare «da ogni possibile angolazione», lasciando che le prospettive scivolino l’una nell’altra, in un gioco di focalizzazioni incrociate che molto deve a montaggi in stile cinematografico, stupefacenti primi piani, significative carrellate – soprattutto nelle scene dei quattro funerali – campi lunghi, audaci zoomate e dissolvenze. Lungi dal creare confusione, questa sorta di libero discorso indiretto contrappuntistico mantiene un delicato equilibrio tra farsa e tragedia rendendo unico e notevole questo romanzo, che si fa al tempo stesso perfetta espressione dello sguardo della comunità bianca sulla «nazione arcobaleno»: «un’assemblea mista, eterogenea e meticcia – così viene vista – irrequieta e a disagio, come elementi opposti della tavola periodica».

Ne viene fuori un feroce ritratto della borghesia bianca sudafricana, nel periodo compreso tra lo stato d’emergenza del 1986 e le dimissioni del presidente Zuma nel 2018: di decennio in decennio, i membri della famiglia Swart si ritrovano al funerale di un componente defunto, fino a che solo la più giovane dei figli di Rachel e Manie Swart, Amor, rimane in vita. È su questa figura misteriosa, forse santa, forse solo «strana», la cui diversità è attribuita a un fulmine che l’ha colpita nella prima infanzia, che il romanzo si apre e si chiude.

Amor è il collante dell’intera vicenda: attraverso i suoi mutamenti fisici, prima di tutto, il tempo si manifesta nella storia. Tredicenne all’inizio del romanzo, sorpresa in maniera traumatica al funerale della madre dalle prime mestruazioni, alla fine della trama avverte i segni di una incipiente menopausa. Ad Amor, «abituata a essere trattata come una macchia confusa… ai margini della visione di tutti», si oppone il primogenito Anton, bello, intelligente, cui tutti prospettano un grande avvenire, e che invece finirà miseramente, oppresso dal ricordo della donna di colore che ha ucciso quasi per caso il giorno prima della morte di sua madre. Per tutti gli altri componenti della famiglia Swart, i neri sono invisibili: tanto Astrid, la sorella maggiore di Amor, quanto suo padre Manie, la zia Marina, la cognata Desirée sono perfetti esemplari di recovering racism, termine con cui i sudafricani definiscono il razzismo nel post-apartheid.

Osservazioni imbarazzanti
Spesso, facendo propri i loro pensieri, il narratore registra osservazioni imbarazzanti: al funerale di Manie Swart che, per ironia della sorte, coincide con le finali di Coppa del Mondo di Rugby: «Il centro della città non è mai stato così, tutti questi neri che vagano disinvolti, come se appartenessero a questo posto. Sembra quasi una città africana!». Impossibile, qui come altrove, non percepire l’ironia con cui l’autore prende le distanze dalle osservazioni del narratore e dai suoi stessi personaggi, riuscendo a mantenere leggero il tono di una vicenda che nasce e si sviluppa attorno a una serie di decessi. E tuttavia, proprio perché l’intera storia è raccontata dalla prospettiva dei bianchi, e la narrazione non si addentra nella psiche dei neri, il romanzo si presta anche a venire letto come un apologo politico.

A nessuno sfuggirà come la promessa di Manie alla moglie morente (una promessa origliata da Amor) di donare a Salome, la domestica nera, la fatiscente casa in cui abita e il terreno incoltivabile che la circonda, sia metafora di tutte le promesse infrante nel Sudafrica post-apartheid. Di funerale in funerale, Amor ricorda caparbiamente ai familiari la promessa paterna che, altrettanto ostinatamente, viene ignorata. Se, ancora nel 1986, quel lascito era inattuabile, perché per legge un bianco non poteva designare come erede una persona di colore, più di trent’anni dopo, quando, finalmente, Salome riesce a ottenere la casa, la voce dei neri si fa sentire, per la prima e unica volta nel romanzo, attraverso la rabbia del figlio Lukas: «I tuoi avanzi. Ecco cosa stai dando a mia madre, con trent’anni di ritardo», rinfaccia ad Amor «E ancora non capisci, non sta a te darla. È già nostra. Questa casa ma anche la casa in cui vivi e il terreno su cui si trova. Sono nostri! Non sta a te darceli come fosse un favore quando hai smesso di usarli. Tutto quello che hai, signora bianca, è già mio. Non devo chiedere».

All’invettiva di Lukas fa seguito un’immagine pregnante del rapporto tra bianchi e neri nell’odierno Sudafrica, l’abbraccio tra Salome e Amor, «una di quelle fusioni strane e semplici che tengono insieme questo paese. A volte solo a stento». Che ne sarà di un’unione così incerta è il dubbio su cui si chiude questo romanzo pregevole e sorprendente: al narratore non resta se non riflettere, rivolgendosi forse più a sé stesso che ad Amor, sul fatto che «altre storie si scriveranno sulle tue, cancellando ogni parola. Anche queste».