Dimenticare gli esordi quando macinava chilometri da busker, vero musicista di strada, per Damien Rice è impossibile. Nonostante siano passati tredici anni dal primo dei tre dischi fin qui realizzati, diversi milioni di copie vendute e un posto nell’immaginario collettivo ormai consolidato. La necessità di avere un contatto diretto con il pubblico resiste ai mille ostacoli di una carriera che deve confrontarsi con lo show business. Un contatto anche fisico, come quando nell’ultimo bis concesso all’Auditorium parco della musica traboccante di pubblico, invita gli spettatori a salire sul palco, gettando nel panico la security.

«Il più emozionante e incoerente cantautore del mondo» lo ha definito Newsweek che insieme al Los Angeles times ha tessuto agli esordi le lodi di questo irlandese ormai quarantunenne arrivato da Celbridge nella contea di Kildare, a conquistare il mondo. Di sicuro è autentico – e anche un po’ naif – in Damien il modo in cui affronta il pubblico, dalle quinte sbuca sotto una luce fioca attento a non inciampare negli strumenti disposti sul palco: quattro chitarre, la tastiera i tamburi, una tromba e un violoncello. È un one man show e ha solo adattato il suo spettacolo a una platea molto ampia. Quindi looper che moltiplicano la voce e i suoni per dar corpo alle virate noise che caratterizzano le sue ballate dalla linea melodica sempre definita.

L’apertura è Cannonball dal primo disco quell’O che lo ha strappato alla quiete irlandese per trasformarlo (2 milioni di copie solo in madre patria, altrettante vendute nel mondo) in un fenomeno nel 2002, successo amplificato dall’inserimento di The Blower’s daughter e Cold water (proposte nel live set romano) nelle colonne sonore rispettivamente di Closer e Piccole bugie tra amici. Poi arrivano le tracce degli altri due album, Sleep don’t sleep, Older Chests fra le altre.

Si scioglie pian piano, parla con il pubblico e si rivela. È irlandese, ma come racconta spesso nelle interviste, di quella terra odia il senso di frustrazione e negazione dell’autostima imposto dalla religione: «ti reprimono, da bambino ti fanno sentire quasi in colpa per qualsiasi cosa. In un posto così la gente non ha un’alta considerazione di sé, manca l’autostima. Per quanto mi riguarda è come se fossi stato programmato in un modo e stessi cercando di cambiare quel programma per arrivare a dirmi: sii ciò che desideri e non preoccuparti di quel che pensano gli altri». Non semplici ballate le sue, ma storie, racconti di vita.

C’è spazio anche per alcuni brani dall’ultimo – bellissimo – My faded favourite fantasy, per la cui realizzazione ha atteso 8 anni. – arricchiti nell’album da fiati e orchestra e gli arrangiamenti di Rick Rubin – e che qui risplendono nudi e intensi nel canto a volte straziato e nei falsetti lancinanti di Rice.