«Introdurre un salario minimo per legge, per tutti, distruggerebbe l’impianto contrattuale. Una scelta che porrebbe un interrogativo di fondo al Pd: se sia ancora di sinistra». Cesare Damiano, deputato Pd e presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha un’idea netta sul possibile intervento del governo sul nodo sensibile dei contratti, ventilato anche ieri dal presidente del consiglio. Matteo Renzi ha spiegato infatti a Rtl 102,5 che «l’esecutivo e il Parlamento interverranno se non ci sarà un accordo tra Confindustria e sindacati». Il premier non ha parlato espressamente di salario minimo per legge, imposto erga omnes, ma qualche giorno fa lo ha invece invocato esplicitamente Pietro Ichino, anche lui parlamentare di spicco del Pd e sicuramente influente in tema di lavoro.

La reazione di Cesare Damiano è di contrarietà assoluta.

Sono in radicale disaccordo con la proposta di Ichino: l’idea che lo anima è quella di sostituire con il salario minimo per legge i contratti nazionali di lavoro. E non solo: chiede anche il rafforzamento dell’articolo 8 del 2011, quella legge voluta dal governo Berlusconi che permette agli accordi aziendali di derogare rispetto ai contratti nazionali e alle leggi. Questo significherebbe distruggere l’impianto contrattuale, ed è una scelta che ci porrebbe di fronte a un interrogativo: la natura di sinistra del nostro partito. Il nuovo sistema introdurrebbe una totale deregolazione, con un conseguente dumping sociale, che comprimerebbe i salari verso il basso. E annullerebbe di fatto il ruolo delle parti sociali.

Però è vero che le parti sociali non si sanno accordare.

Sono anche loro, come la politica, sicuramente in crisi. Ma un conto è intervenire, magari, con una legislazione di sostegno, ben altra cosa è annullarne forze, ruolo e autonomia.

Per ora un modello non c’è: meglio allora continuare così? Peraltro ci sono diverse ricette su possibili interventi del governo: Landini della Fiom chiede di incentivare fiscalmente i contratti nazionali, e non chiude a un salario minimo per legge, ma basato sui contratti. Furlan della Cisl chiede di detassare, al contrario, il secondo livello.

Ci tengo a togliere di mezzo un equivoco. Io non sono contro un intervento legislativo, ma deve essere di sostegno. L’idea di Landini di sancire per legge i minimi stabiliti dai contratti mi pare buona. O altrimenti, se tutto resta com’è, in caso di contenzioso il giudice continuerà a fare riferimento alle retribuzioni da contratto di categoria. Sul fronte dell’incentivazione rifarei quel che ho fatto già in passato come ministro, detassando gli accordi aziendali. L’essenziale è non mettere in soffitta il contratto nazionale: il salario minimo per legge non deve essere sostitutivo, ma applicato a chi non ha un contratto di riferimento, come abbiamo già deciso con la delega del Jobs Act. Rafforzerei il tutto con una legge di sostegno sulla rappresentatività sindacale, traducendo l’accordo già stipulato da sindacati e Confindustria: c’è già una mia proposta incardinata alla Commissione Lavoro della Camera.

Certificare e normare la rappresentatività con una legge.

Sì, e se hai certificato la rappresentatività, puoi evitare di fare pasticci quando regolerai la legge sugli scioperi dei servizi pubblici essenziali. Ritengo che per indire uno sciopero in questi settori si debba avere al massimo un 20-30% di rappresentatività, e in questo modo puoi evitare che sindacati più piccoli e di mestiere blocchino tutto periodicamente.

Ma è di sinistra, invece, togliere la tassa sulla prima casa anche ai ricchi e non introdurre una flessibilità pensionistica?

Ho già detto che, secondo il principio della progressività in Costituzione, io sono perché chi può la paghi: io vorrei poterla ancora pagare. Sulle pensioni, la scelta di rimandare la flessibilità al 2016 è un errore. Ho parlato di «doccia fredda» da parte del premier, perché era un punto della Nota di aggiornamento al Def approvata dalla Camera. È essenziale nella legge di Stabilità assicurare la settima salvaguardia per 26 mila esodati, con gli 1,3 miliardi risparmiati negli ultimi 3 anni, e garantire l’«opzione donna» fino alla sua naturale conclusione, a fine 2015. Per quanto riguarda l’uscita flessibile, io i conti li ho già fatti, e vorrei che Renzi li discutesse con me: si può anticipare l’uscita fino a 4 anni, e chi esce paga uno scotto dell’8%. Il sistema costa allo Stato solo per i primi 4 anni, poi per i successivi 19 anni di aspettativa di vita media del pensionato rappresenta addirittura un risparmio.

Per freelance e partite Iva proporrete delle soluzioni?

Ci stiamo impegnando. Miriamo a bloccare i contributi al 27%, per poi farli scendere gradualmente fino al 24%. A portare il tetto dei regimi fiscali da 15 mila a 30 mila euro, con una aliquota sostitutiva unica del 5% per i primi 5 anni e poi del 15% dal sesto. E poi: deduzione totale per aggiornamento e formazione, accesso ad appalti e bandi europei. Infine, nuovi diritti, misurati su di loro, su maternità e malattia grave.