Il governo di Damasco prende nuovo slancio, forte del sostegno della Russia. Dopo aver tentato di mantenere le posizioni nel terzo di paese ancora controllato, grazie all’aiuto di Hezbollah e dell’Iran, ora punta al territorio perduto. Ieri il capo di Stato maggiore siriano, Ali Ayoub, ha annunciato il lancio di un’operazione terrestre di ampia scala nel centro e nel nordovest. Obiettivo, ripulirli dai gruppi di opposizione islamisti, al-Nusra e la galassia del Jaish al Fatah, l’Esercito di Conquista, di cui i qaedisti sono fondatori e guida.

Dopo aver messo quasi del tutto in sicurezza il confine con il Libano con la controffensiva su Zabadani e la firma del cessate il fuoco con al-Nusra, ora Damasco vuole liberare le zone rurali di Idlib, Hama e Latakia. Così si garantirebbe non solo aree strategiche perché porta verso Damasco e il confine nord con la Turchia, ma anche il consistente indebolimento della compagine qaedista e la definitiva scomparsa dell’Esercito Libero Siriano, ancora presente ad Aleppo.

Le truppe via terra, ha aggiunto Ayoub, avanzano coperte da missili superficie-superficie dell’artiglieria siriana e dai raid aerei della Russia. La cooperazione militare è ormai un dato di fatto, con Mosca che mostra la propria capacità militare e di consequenza il suo peso geopolitico nel conflitto. Non sono mancate le proteste Usa: «Oltre il 90% dei bombardamenti non sembrano essere diretti contro l’Isis né contro affiliati di al Qaeda, ma contro gruppi di opposizione che vogliono un futuro migliore per la Siria», ripeteva mercoledì il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby. La stessa accusa è mossa dalle opposizioni fuori e dentro: secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, i raid russi non sono concentrati sull’Isis, ma su gruppi sunniti, al-Nusra e Ahrar al-Sham, come se non si trattasse di milizie estremiste pericolose per il paese.

Allo stesso tempo Washington rigettava l’apertura di Mosca che mercoledì chiedeva di collaborare per risolvere il problema terrorismo: ieri il segretario alla Difesa Usa Carter ha fatto sapere che il suo paese non è pronto a coordinarsi con la potenza rivale. Non solo: ha avvertito Mosca del pericolo di rappresaglie e attacchi sul campo.

Alle critiche degli Stati uniti, la cui strategia militare appare congelata dall’iniziativa russa, segue il paventato interventismo della Nato. Ieri il segretario generale del Patto Atlantico Stoltenberg ha avvertito: «La Turchia è un valente alleato, la Nato è pronta sostenerla. Abbiamo già risposto preparando l’eventuale dispiegamento di truppe a sud, compreso in Turchia».

Interviene anche la stessa Turchia che ha minacciato di interrompere i rapporti commerciali con la Russia: il presidente Erdogan ha prospettato la possibità di cancellare la costruzione dell’impianto nucleare da parte della compagnia statale russa Rosatom e di sospendere l’acquisto di gas russo (che oggi copre il 60% del fabbisogno interno turco, 30 miliardi di metri cubi su 50).
«Ci sono questioni a cui la Russia deve pensare – ha detto Erdogan – Se i russi non costruiscono Akkuyu [l’impianto a sud], lo costruirà qualcun altro. Siamo il primo consumatore di gas naturale russo. Perdere la Turchia sarebbe grave. Ma se necessario, cercheremo il gas da qualche altra parte».

L’isteria di Erdogan è specchio delle preoccupazioni che attraversano l’establishment turco: dopo aver investito denaro e lavoro di intelligence nella coltura dei gruppi moderati anti-Assad prima e di quelli sunniti estremisti poi, Ankara rischia di veder evaporare gli sforzi messi in campo negli ultimi anni. Da stretto alleato siriano, la Turchia ha rotto i ponti con Damasco nel tentativo palese di prenderne il posto, nuovo punto di riferimento per il Medio Oriente. Un piano nato già fallito e oggi impossibile da realizzare a causa del rinnovato ruolo russo.

Una simile preoccupazione è condivisa dai paesi del Golfo, costretti ad assistere all’indebolimento della strategia anti-Assad e alle prime crepe nell’alleanza stretta con l’Egitto, oggi sostenitore dell’intervento russo. A fare la voce grossa contro Mosca sono i religiosi sunniti: 55 religiosi sauditi hanno fatto appello al jihad contro la Russia, richiesta a cui si è unita la Fratellanza Musulmana, non certo vicino a Riyadh.

Per ora la petromonarchia di re Salman evita reazioni eccessive, nascondendosi dietro le necessità dettate dalla questione yemenita: il vero timore di Riyadh è sperperare altro denaro per sostenerere gruppi che non stanno avendo la meglio su Damasco. Inoltre, dopo aver facilitato il prosperare di gruppi come l’Isis, che non ha mancato di compiere attacchi nel paese, l’Arabia saudita teme un incremento del numero di giovani sauditi che – sulla spinta di certi religiosi estremisti – si uniscano alle sue fila.