Il presidente russo Putin ha inaugurato una nuova strategia nella crisi siriana: parla con tutti, poi prende l’iniziativa. Parla con Netanyahu e lo rassicura, parla con i sauditi e li rassicura. Parla con le opposizioni moderate, le invita a Mosca, le tranquillizza tanto da fargli credere che non sosterrà più Assad. E poi lancia raid per rafforzare il presidente siriano.

E tira la corda così tanto da costringere gli Stati uniti a cancellare il programma di addestramento delle unità dell’Esercito Libero Siriano e a investire quei milioni di dollari in compagini più efficaci, quelle kurde.

Il risultato è chiaro, ma le opposizioni fingono di non averlo compreso: ieri la Coalizione Nazionale Siriana, un fantasma sul campo di battaglia e nelle stanze della diplomazia mondiale, ha rigettato il dialogo proposto dalle Nazioni Unite. L’inviato Onu in Siria, De Mistura, ha da tempo messo sul tavolo la creazione di quattro gruppi di lavoro per uscire dalla crisi e che seguano questioni centrali: contro-terrorismo, ricostruzione, protezione dei civili e transizione politica. Ieri lo stesso De Mistura ha parlato del tentativo di organizzare incontri tra statunitensi e russi, prima a Mosca e poi a Washington, a partire da oggi.

«Non prenderemo parte ai gruppi di lavoro consultivi – si legge nel comunicato della Coalizione – Ci consideriamo legati a Ginevra, alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu e alla fine dell’aggressione russa, come basi per la ripresa del negoziato». La Coalizione è rimasta ferma a tre anni fa, ai gloriosi ma inconsistenti proclami della conferenza di Ginevra. Come se, negli ultimi tre anni, non fosse cambiato nulla, come se l’Esercito Libero (suo braccio armato) desse ancora filo da torcere ad Assad, come se la Russia non fosse intervenuta stravolgendo gli equilibri.

Come se al posto dei ribelli moderati non ci fossero ora Isis e al-Nusra e come se Assad non stesse lanciando una controffensiva concreta, la prima da anni. Sotto la copertura dei raid aerei russi (ieri Putin lo ha detto senza mezzi termini: «Nostro compito è stabilizzare il governo legittimo e creare le condizioni per un compromesso politico») e con il sostegno terrestre di Hezbollah, l’esercito ha ripreso in pochi giorni una serie di comunità nelle province di Latakia, Hama e Idlib.

Zone strategiche perché vicino alle roccaforti alawite e cintura intorno a Damasco: pulirle dalla presenza dei qaedisti di al-Nusra significherebbe mettere in sicurezza la capitale e allargarsi verso nord ovest, verso il confine con la Turchia. Insieme al terzo di paese che Damasco ancora controlla (parte del centro e la costa), il nord ovest è un’area molto popolata a differenza dell’est dove a dettare legge è l’Isis. Riassumere il controllo di buona parte del paese e della stragrande maggioranza della popolazione permetterebbe ad Assad di lanciare una futura offensiva verso oriente, verso il califfato (da Raqqa al confine con l’Iraq), con le spalle coperte.

La frontiera con la Turchia a nord-est è, invece, controllata dalle unità kurde delle Ypg, ancora target Isis. Ma la Rojava ha dimostrato di saper contenere – nonostante gli ostacoli creati dalla Turchia – l’avanzata del califfato, tanto da attirare l’attenzione Usa. Pochi giorni fa Washington, dopo aver cancellato il programma di addestramento dei ribelli, ha deciso di spostare quei soldi sui kurdi: 20mila combattenti potrebbero essere armati dal Pentagono; le prime 50 tonnellate di munizioni – secondo fonti interne Usa – sarebbe state lanciate ieri su Hasakah.

Forse in risposta alla mossa Usa, i kurdi hanno annunciato la nascita di un nuovo fronte, le Forze Democratiche Siriane: ne faranno parte le Ypg, gruppi armati siriani, tribù arabe e cristiani siriaci. Un occulto cambio di strategia per gli Usa e un duro colpo alla Turchia: i kurdi siriani (e il loro ispiratore, il Pkk) non hanno mai alzato le armi contro Assad con cui collaborano in chiave anti-Isis in aree settentrionali e con cui negoziano una maggiore autonomia, una volta che la guerra sarà finita.

Iraq: al-Baghdadi non è stato colpito

Il governo di Baghdad ha fatto sapere ieri che il convoglio dell’Isis, a bordo del quale viaggiavano alcuni leader del gruppo, colpito dall’aviazione non stava trasportando il “califfo” al-Baghdadi. Inizialmente sembrava che il leader fosse stato ferito e portato in un ospedale al confine con la Siria. Nuove informazioni dell’intelligence dicono invece che «con molta probabilità» al-Baghdadi non era presente.