Il giorno dopo l’accordo siglato tra Russia e Stati Uniti e il suo avallo ufficiale (la telefonata tra i presidenti Putin e Obama), ieri è arrivata l’adesione di governo e opposizioni: le due parti accettano di sospendere gli scontri armati, trampolino di lancio del negoziato di Ginevra seppure ieri lo stesso segretario di Stato Kerry si mostrava scettico sugli sviluppi immediati. Non si fermeranno, invece, le operazioni contro le organizzazioni escluse dal dialogo, Stato Islamico e al-Nusra.

Se le dichiarazioni di buona volontà non saranno smentite, il cessate il fuoco entrerà in vigore alla mezzanotte di sabato 27 febbraio. Seppure non sia stato previsto un team di osservatori che monitorino il rispetto dell’accordo, si immagina che la fine degli scontri armati coinvolgerà le aree calde nel nord del paese, a partire da Aleppo e Idlib, il confine con il Libano, l’est di Damasco e il sud del paese.

Ma le stesse aree sono terreno di scontro anche con i qaedisti di al-Nusra e gli islamisti dell’Isis, molto più radicati delle milizie armate delle opposizioni laiche dell’Esercito Libero Siriano e dei salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam. Spesso le linee dei fronti si sovrappongono, impendendo di individuare con certezza dove ad operare sono le opposizioni legittime e dove gli islamisti. Un rischio dovuto anche alla vicinanza di certi gruppi armati (come Ahrar al-Sham) ad al-Nusra, visto come potenziale alleate contro il nemico comune, Assad.

Di certo le truppe governative dispiegate intorno ad Idlib, Latakia, Zabadani, Quneitra, non torneranno a casa. E, in mancanza di dettagli in proposito, è difficile per ora immaginare azioni congiunte dei due avversari in chiave anti-Isis, nonostante il “califfato” controlli un terzo del paese.

E mentre ci si chiede in quali termini proseguirà l’operazione governativa su Aleppo, se cioè si sposterà verso i quartieri orientali assediati dall’Isis, Damasco specifica che riprenderà le operazioni alla prima violazione e chiede di visionare la lista dei gruppi parte dell’accordo.

Poi, se ne esce fuori con una carta a sorpresa: ieri il governo ha annunciato la data delle prossime elezioni parlamentari. Secondo il decreto presidenziale emesso ieri, il voto si terrà il 13 aprile in tutte e 14 le province del paese, a quattro anni dal precedente scrutinio. Le urne si aprirono nel 2012 e furono le prime multipartitiche, nel tentativo di frenare la guerra civile. Molte delle opposizioni di allora boicottarono il voto, a seguito del quale fu nominato premier Rijab Hajib, oggi leader delle opposizioni sponsorizzate dai sauditi.

Anche qui l’apertura del governo è una medaglia a doppia faccia: una simile chiamata alle urne non è frutto del negoziato con le opposizioni, ma una decisione unilaterale di Damasco che dovrà per forza passare per il vaglio dell’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), la federazione delle opposizioni, ma soprattutto per i veri negoziatori, Usa e Russia. Senza dimenticare le condizioni in cui i seggi spalancheranno le loro porte: metà della popolazione siriana, 11 milioni di persone, è sfollata all’interno o rifugiata all’estero.

Dall’Hnc non è giunto ancora alcun commento in merito, ma dall’incontro di urgenza a Riyadh di lunedì sera è uscita l’adesione all’accordo di cessazione delle ostilità in cambio dello stop dei raid russi. Almeno ufficialmente: non mancano malumori e mal di pancia tra i miliziani dispiegati sul campo di battaglia. «Una perdita di tempo, difficile da implementare sul terreno – dice all’Afp Abu Ibrahim, comandante della 10° Brigata dell’Esercito Libero Siriano, di stanza nella provincia nord-occidentale di Latakia – Molti gruppi lo rigetteranno perché nessuna delle fazioni sul terreno è stata consultata. La 10° Brigata è legata alla decisione dell’Hnc, ma risponderemo ad ogni missile del regime».

A stretto giro arriva anche la reazione di uno dei principali incendiari del conflitto siriano, la Turchia: ieri il vice premier Kurtulmus ha accolto la tregua ma si è detto «poco ottimista che tutte le parti la rispettino». Ma soprattutto ha avvertito dell’intenzione di Ankara di non interrompere i raid contro le Ypg kurde, le unità di difesa popolare del Partito dell’Unione Democratica, nel caso di fuoco sparato verso il territorio turco. Concreta è quindi l’eventualità che la Turchia usi il minimo pretesto per proseguire nella campagna anti-kurd, vista la vicinanza delle Ypg alla frontiera, dove sono impegnate in scontri per la ripresa di Azaz.