In tempo di pandemia, il turismo di prossimità può essere una valida alternativa. Attorno a noi ci sono tanti posti da conoscere, che abbiamo a lungo snobbato preferendo mete lontane ed esotiche. Queste righe saranno dedicate alla comunità di Damanhur nei pressi di Ivrea, la città industriale del XX secolo iscritta nella lista del Patrimonio Mondiale Unesco il 1° luglio del 2018. Qui c’è un pezzo di storia in bianco e nero dell’Italia del Novecento. Ed è proprio in un ex stabilimento Olivetti, la Damanhur Crea in località Vidracco, che Barys Elleboro ci dà appuntamento, per poi spostarci in auto nella sede storica della comunità a Baldissero, dove pranziamo nel ristorante Somachandra.

VENTISETTE anni, questo giovane aveva frequentato un mio corso all’università. Era iscritto come Setna Bernini, ma in comunità è conosciuto come Barys Elleboro: «Ci mettiamo in gioco scegliendo un nome e sottoponendolo al giudizio altrui in una discussione pubblica. In russo e kazako, Barys vuol dire leopardo delle nevi. È un animale che va dritto al punto, non perde tempo. Elleboro è invece una sorta di ranuncolo. Setna è il mio nome all’anagrafe, di origine egizia. Bernini il cognome di mio padre». Sempre a proposito di nomi e significati, Damanhur vuol dire «città della luce» e – anche in questo caso – le origini sono in Egitto: «Vicino ad Alessandria esiste una località che si chiama così».
L’idea di costituire una comunità risale agli anni Settanta, quando i fondatori si organizzano nel Centro Horus dando vita a una serie di iniziative culturali su vari temi, dall’esoterismo alla parapsicologia, a modelli sociali alternativi. Dopodiché acquistano i primi terreni nei pressi di Vidracco e iniziano a costruire.

INIZIALMENTE sono una ventina di persone, oggi i membri della comunità nei pressi di Ivrea sono cinquecento, appartengono a una quarantina di nazionalità diverse (la metà italiani) e sono distribuiti in una trentina di gruppi in aree limitrofe. Di questi, oltre un centinaio presta lavoro nelle attività interne: allevano bestiame, coltivano la terra, gestiscono un supermercato e insegnano nella scuola famigliare frequentata anche dai bambini della valle. Tanti altri sono medici, infermieri, avvocati, imprenditori. E trovano occupazione altrove. Fuori da queste colline, ci sono altre milletrecento persone sparpagliate per il mondo.
È una bella giornata di sole, ma fa freddo. Quando arriviamo l’acqua del laghetto vicino al ristorante Somachandra è ghiacciata. Nel primo pomeriggio nell’anfiteatro sarà celebrata una cerimonia per ricordare un uomo che di nome faceva Bisonte. «Abbiamo già organizzato un momento per accogliere le ceneri del defunto e dargli un ultimo saluto per accompagnare la trasformazione del corpo. Crediamo nell’aldilà e nella reincarnazione». «Le dimensioni del nostro vivere insieme sono due, comunitaria e spirituale», continua la guida.

«PER ENTRARE a fare parte di Damanhur è sufficiente presentare domanda, dopodiché si ha un periodo di prova di circa un anno per comprendere se il vivere comunitario è adatto a te». Lui, Barys, ha scelto di vivere qui: «Ci sono nato, ma la cittadinanza damanhuriana non si eredita. Sono stato io a decidere che questo progetto mi appassionava e sono rimasto». A Damanhur si nasce, si studia fino alla terza media (dopodiché ci sono ottimi licei a Ivrea), ci si può sposare «con matrimoni a tempo, rinnovabili dai coniugi di anno in anno se le unioni funzionano, in genere si va in Comune se ci sono figli, per tutelarli», spiega Barys.

DAMANHUR sta compiendo ormai 45 anni: «I primi anni la gente del posto diffidava dei nuovi arrivati, anche perché inizialmente non era stato reso noto il lavoro di scavo che ha permesso la costruzione dei templi sotterranei», commenta. La maggiore attrattiva di questa comunità sono infatti i «Templi dell’Umanità» visitabili su prenotazione. Otto sale sotterranee, raggiungono i 70 metri di profondità. Per arrivarci bisogna prendere l’auto e percorrere una stradina asfaltata ma impervia. A seicento metri di altitudine vive una famiglia di dieci persone. Famiglia in senso comunitario, perché non sono imparentati tra loro ma hanno scelto di fare famiglia.
Ancora non lo sapete, ma con me ci sono mio figlio (diciotto anni) e la sua amica Irene (vent’anni). Lui studia Scienze politiche, lei è al secondo anno di Fisica. A scendere nei Templi saranno loro. Le profondità della terra mi inquietano, mi limiterò a visitare la Sala degli Specchi e il Labirinto in cui sono rappresentate oltre seicento diverse divinità: «Damanhur vuole celebrare la diversità dei popoli». Mentre i giovani visitano i Templi, ad accogliermi nella casa chiamata Porta del Sole, è Goblin (nella mitologia nordica è uno spirito di natura), all’anagrafe Patrizio.
Classe 1963, originario di Vercelli, vive a Damanhur dal 1989: «Per me venire qui e cambiare nome è stato un viaggio. Per i miei genitori l’importante era che io stessi bene, non mi hanno osteggiato. Vivo nella Casa dei custodi, qui c’è sempre qualcuno perché il nostro territorio ha una sua sacralità e importanza energetica».

LE ORCHIDEE sul ripiano del davanzale, i gerani nella serra. In grembiule nero a sottili righe gialle, Patrizio mi offre un caffè con il miele e precisa: «Non siamo figli dei fiori, gli hippy hanno dovuto fare i conti». E infatti, quando mio figlio chiede come mai sia vietato fumare anche all’aperto e pure le sigarette elettroniche (c’è un cartello nei bagni pubblici), Barys spiega che «qui ci sono soltanto due divieti: niente fumo e niente droghe, di nessun tipo».
Nei decenni questa comunità è stata al centro di tante polemiche: «Gli scavi per i templi sono stati fatti poco per volta, a denunciarne l’esistenza era stata una persona che aveva deciso di lasciare la comunità. Essendo gli accessi nascosti, le forze dell’ordine non avevano trovato nulla. Quella persona aveva insistito, inventando l’esistenza di armi, droghe e cadaveri. Quando sono tornati i poliziotti con il magistrato, sono stati gli stessi fondatori della comunità a farli entrare. Ed è stato così che sono stati scoperti i templi e la loro arte, il magistrato è rimasto così colpito che non ha potuto fare altro che affidarne la conservazione alla comunità stessa».

UN’ALTRA ACCUSA rivolta ai vertici di Damanhur riguarda il fatto che i membri devono cedere la proprietà dei loro beni alla comunità: «Era vero all’inizio, una scelta dei fondatori, ora non più. È oltre trent’anni che non si dà tutto quando si diventa cittadini di Damanhur. Nei decenni molto è cambiato». A testimoniare il cambiamento è anche il sindaco di Vidracco, membro di questa comunità. Di certo le persone sono invecchiate, qui l’età media si aggira sui cinquant’anni. Per chi viene da fuori, la visita è un’esperienza curiosa. Anche per i due ragazzi che al ritorno si addormentano sereni mentre percorriamo in auto i cinquanta chilometri in direzione di Torino.