Parlare di droghe è considerato sempre qualcosa da stravaganti. Non parlarne, soprattutto in alcuni casi, è da superficiali. E fa perdere il nodo della questione. Il fatto che l’Afghanistan sia il leader mondiale del traffico d’oppio è un dato assolutamente non trascurabile per analizzare la situazione nel paese. Capire come i talebani abbiano gestito il 90% del mercato nero mondiale dell’oppio serve a spiegare l’origine del loro potere. Serve a conoscere come sia stato possibile per loro costruire un esercito più potente di quello americano che ha operato in questi ultimi 21 anni. Nel 2001 i talebani erano contrari alla gestione di questo traffico, considerato avverso ai dettami del Corano. Poi hanno cambiato idea.

Non sono stati gli unici: gli estremisti islamici di ogni dove hanno sdoganato il traffico di stupefacenti per finanziare le proprie jihad e hanno ritenuto compatibile l’uso personale di droghe con il proprio percorso di radicalizzazione. In molti casi, per esempio, gli esami tossicologici fatti sui corpi dei responsabili di attentati suicidi in Europa hanno rivelato l’uso di sostanze nelle ore e nei giorni precedenti agli attacchi, probabilmente in funzione “preparatoria” (fonte: European Monitoring Centre for Drugs).

Così è accaduto che anche nel secondo paese più povero al mondo, si sia sviluppato un mercato illegale che vale oltre 6 miliardi di dollari all’anno. Secondo l’ultima rilevazione dell’UNODC, l’Ufficio droga e crimine delle Nazioni unite, la superficie totale coltivata a papavero da oppio in Afghanistan è stimabile in 224.000 ettari nel 2020, il che rappresenta un aumento del 37% rispetto all’anno precedente. La regione sud-occidentale, l’Helmand è rimasta la principale produttrice. I talebani, pian piano, sono passati dal tassare i produttori a prendere in mano l’intera filiera di produzione e di prima trasformazione del papavero e della gomma da oppio che viene raffinata in morfina ed eroina nei laboratori sparsi in tutto il paese.

L’oppio prodotto in Afghanistan rifornisce i mercati del Vicino e Medio Oriente, dell’Asia meridionale, dell’ Africa e del Nord America. Va ricordato che l’oppio non è una coltura tradizionale afgana, fu importato negli anni ‘50 ed ebbe la sua massima diffusione negli anni ‘80, gli anni dell’esplosione di eroina in tutto il mondo. A incentivarla furono proprio gli americani attraverso la CIA per creare una sorta di moneta parallela utile a finanziare la guerra contro la Russia. Anche per questo, forse, il silenzio americano sul tema. Il controllo di questo traffico ha avuto conseguenze dirette sul potere dei talebani di acquistare armi, reclutare migliaia di giovani, corrompere e tenere in mano il territorio.

L’eco di queste trasformazioni ha risuonato nel resto del mondo: secondo il World Drug Report tra il 2010 e il 2019, il numero di consumatori di oppiacei in tutto il mondo è quasi raddoppiato: da poco più di 31 milioni a poco meno di 62 milioni stimati utenti dell’anno passato. In questo contesto occorre chiedersi: c’è un modo di sottrarre questo mercato e questo potere ai talebani? Magari provando a regolamentare un pezzo di produzione e vendita? Nel 2005, l’allora commissaria europea Emma Bonino, al termine di una missione degli osservatori Ue che aveva guidato a Kabul, prospettò una soluzione simile. Per arginare il fiume di droga che attraversa l’Asia centrale, disse, i Paesi occidentali avrebbero dovuto acquistare dai coltivatori una buona parte dell’oppio destinato a diventare eroina per trasformarlo in farmaci. Proposta che il ministro dell’Interno Giuliano Amato rilanciò a margine del G8 di Mosca del 2006. Poi non se ne fece niente e si scelsero altre vie.

Secondo un rapporto SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) Washington ha speso circa 8,6 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2017 per soffocare il traffico di droga in Afghanistan al fine di negare i fondi talebani. Oltre all’eradicazione del papavero, gli Stati Uniti e gli alleati hanno appoggiato programmi di colture alternative (per esempio l’ulivo), raid aerei su sospetti laboratori di eroina e altre misure.

Questi sforzi “non hanno avuto molto successo”, ha detto a Reuters il generale in pensione dell’esercito americano Joseph Votel. Invece, avrebbero alimentato la rabbia contro il governo di Kabul e i suoi sostenitori stranieri – e la simpatia per i talebani – tra agricoltori e lavoratori che dipendono dalla produzione di oppio per sfamare le loro famiglie. Occuparsi di traffico di stupefacenti vuol dire occuparsi di democrazia. Vuol dire capire chi ha il potere e come lo usa. A parte qualche eccezione, come i richiami di Roberto Saviano, il tema non sembra interessare l’approfondimento istituzionale e pubblico di questi giorni. Eppure ignorare il tema è estremamente pericoloso.
* coordinatrice di Meglio legale