La fine del 2019 si è contraddistinta per un acceso confronto sul ruolo delle infrastrutture,e su quello dello Stato nel promuoverle e nel controllarle, a partire dal caso emblematico delle concessioni autostradali.

Meno noti sono i movimenti finanziari che sottendono agli investimenti infrastrutturali e alla loro regia. Val la pena, ad esempio, riflettere sul Fondo F2i, nato nel 2007 per impulso di Cassa depositi e prestiti come primo Fondo italiano per le infrastrutture, con investimenti che ammontano a circa 5 miliardi di euro. Tra i protagonisti, oltre a Cdp, che possiede una quota pari al 14%, ci sono Banca Intesa e Unicredit complessivamente con il 20%, le Fondazioni bancarie, con una quota pari al 25%, e Fondi sovrani e casse previdenziali.

Complessivamente le quote riconducibili a soggetti pubblici o semi-pubblici favoriscono la definizione di F2i come fondo pubblico, nato per l’esigenza politica di aggregare poli industriali di interesse nazionale. Su Repubblica recentemente si è persino parlato di questo Fondo come di una «nuova Iri», sebbene precisando che segue le regole della finanza attuale, cioè aperte al mercato.

A conferma, seppur indiretta, di tale interpretazione sarebbe anche la provenienza da istituzioni pubbliche dell’attuale amministratore delegato Renato Ravanelli e del suo predecessore Vito Gamberale.

F2i sembra avere un progetto per le infrastrutture attorno a settori chiave come gli aeroporti o il segmento energetico, dal ciclo idrico a quello del gas. In quest’ultimo è recente l’acquisizione di Sorgenia (società fortemente indebitata, ma con utili in ripresa), operazione per cui il giornale digitale Linkiesta ha parlato di «sovranismo energetico» con l’obiettivo di mantenere «in mani pubbliche» un settore strategico che era già in mano a banche italiane. Insomma la logica sarebbe quella di acquisire soggetti industriali a prezzi non sempre di mercato per poi gestirli all’interno del consueto carrozzone statale.

La preoccupazione di un eccesso di ruolo pubblico appare piuttosto infondata intanto perché i rendimenti di F2i per ora sono elevati, in alcuni casi si parla di numeri a due cifre, ma soprattutto perché questi investimenti riguardano settori centrali dell’economia, ma non vanno letti con le lenti del passato.

Ci sono capitali pubblici che vengono investiti, ma la logica è tutta privata, cioè di una vera e propria promozione dell’economia privata. Con investimenti all’estero e in concorrenza con le multiutility italiane come Iren o A2a. F2i ha dato vita anche a una holding portuale acquisendo terminal nei porti di Massa, Marghera e Chioggia, scali dediti alle merci rinfuse solide che costituiscono approvvigionamenti fondamentali per l’industria italiana (dai materiali siderurgici al marmo). Umberto Masucci, il presidente della holding, e Fabrizio Vettosi, alla guida di Venice Shipping and Logistics (società che assiste la holding portuale di F2i), durante un Forum sullo shipping tenutosi a Genova lo scorso novembre, hanno rilanciato la proposta di una privatizzazione delle Autorità di Sistema Portuale, cioè di quegli organi pubblici che dovrebbero essere il soggetto garante di un uso neutro delle banchine portuali, tuttora formalmente del demanio.

Teorizzando implicitamente una sorta di fine del dualismo tra soggetto controllore (l’autorità pubblica appunto) e controllato (gli operatori portuali e le grandi compagnie di navigazione).

F2i, dunque, nasce da fondi anche pubblici, si teme addirittura possa dare vita a un nuovo attore pubblico che deformi le regole del mercato, ma in realtà rischia di essere protagonista di una ulteriore eutanasia della sfera pubblica in economia. Questa appare l’ultima dimensione dell’agire pubblico, quella in grado di soccorrere soggetti e logiche privati, senza un respiro autonomo in termini di condizionamento e regolamentazione. Altro che Iri!