I primi britannici, come gran parte degli europei fino a non molte migliaia di anni fa, avevano la pelle e capelli scuri. Anche a quelle latitudini da vichingo, dunque, gli attuali europei discendono da popolazioni che di «ariano» avevano ben poco, solo gli occhi azzurri.

Questo è il risultato delle ultime analisi genetiche svolte dai paleontologi su diversi ritrovamenti. Se però il concetto non fosse abbastanza chiaro, il Museo Nazionale di Storia Naturale di Londra ieri ha mostrato al pubblico una ricostruzione a grandezza naturale di un individuo vissuto circa diecimila anni.

Gli archeologi lo chiamano «Cheddar man», perché il suo scheletro quasi completo fu ritrovato vicino alle gole di Cheddar, nel sudovest dell’Inghilterra, già nel 1903. Ma solo grazie alle tecniche biotecnologiche odierne, i ricercatori sono stati in grado di analizzarne il Dna scoprendone le reali fattezze. Il compito di ricostruire il più accuratamente possibile un britannico del mesolitico è stato affidato al Museo Nazionale dalla produzione del documentario «I primi britannici: i segreti dell’uomo di diecimila anni fa» della rete tv inglese Channel Four, programmato per il 18 febbraio.

[do action=”citazione”]Eppure pochi si aspettavano che la ricostruzione avrebbe mostrato un individuo dall’aspetto così poco nordico, secondo gli standard attuali.[/do]

In realtà, si tratta di una sorpresa solo per il grande pubblico. Già nel 2014, infatti, una ricerca dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona era giunta alle stesse conclusioni, sulla base dell’analisi genetica dei resti di due individui vissuti nel nord della Spagna circa settemila anni fa, quando ancora l’organizzazione sociale prevalente di Homo sapiens era quella dei cacciatori-raccoglitori. I ricercatori spagnoli, inoltre, avevano osservato che quegli europei arcaici sono strettamente imparentati geneticamente con gli attuali abitanti di Svezia e Finlandia. Insieme ad altre ricerche su analoghi ritrovamenti in Siberia, questo dimostra che i primi cacciatori-raccoglitori europei erano una popolazione che si mescolava con una certa facilità anche tra gruppi provenienti da regioni lontane.

La conferma di questa teoria è rilevante perché demolisce il «modello standard» della differenziazione del colore della pelle tra le varie popolazioni arcaiche di Homo sapiens. Finora si è ritenuto che la pigmentazione della pelle dei primi europei si fosse «schiarita» poco dopo l’uscita di Homo Sapiens dal continente africano (circa cinquantamila anni fa) per adattarsi alla minore intensità della luce solare. Invece, gli europei rimasero «neri» molto più a lungo.

L’attuale colore della pelle, dunque, è un carattere acquisito in tempi recenti: probabilmente è dipeso solo dal cambiamento di dieta susseguente all’invenzione dell’agricoltura, che ha permesso all’uomo di acquisire vitamina D dal cibo invece di sintetizzarlo con i pigmenti della pelle.

[do action=”citazione”]La notizia che l’Europa era già piuttosto unita diecimila anni fa e che la «razza ariana», se mai è esistita, aveva la pelle scura seppellisce definitivamente gli stereotipi isolazionisti e razzisti, tristemente riaffiorati nella propaganda politica.[/do]

Il colore della pelle è la manifestazione di caratteri genetici acquisiti molto di recente e che c’entrano poco con la latitudine. Classificare gli umani in «razze» sulla base del colore della pelle non ha dunque alcun senso. Eppure, questa ideologia prevale tuttora in alcuni esemplari di Homo sapiens che mostrano curiose somiglianze con un altro gruppo sociale europeo risalente circa un secolo fa, i cosiddetti «fascisti».