A Berlino per presentare La paranza dei bambini ci sono il regista Claudio Giovannesi, Roberto Saviano, autore della sceneggiatura – e del libro omonimo del 2016 da cui è tratta – insieme a Maurizio Braucci e Giovannesi, e il giovane protagonista Francesco Di Napoli, «scoperto» dagli autori a Rione Traiano: lo stesso dei protagonisti di Selfie di Agostino Ferrente. «Mi sono venuti a cercare nel bar dove lavoravo», spiega infatti l’attore, che come i ragazzi del documentario di Ferrente ha scelto di non conformarsi al mondo che lo circonda. Ma che nel film di Giovannesi interpreta invece il leader sedicenne di una paranza.

Come vi siete approcciati al racconto di questa storia?

Claudio Giovannesi: «Il tema che ha guidato tutta la scrittura del film è la la perdita dell’innocenza. Abbiamo lavorato sul romanzo a partire dalla vita emotiva dei personaggi, il percorso di ragazzi che dall’incoscienza del gioco arrivano alla guerra e così facendo rinunciano alla propria adolescenza. La paranza dei bambini è stato costruito proprio sul binomio gioco/guerra: il film inizia con un gioco – il furto dell’albero di Natale di una banda rivale – e il turning point è il momento in cui non si può più tornare indietro: quando i reati cominciano a essere irreversibili. Un altro aspetto fondamentale è stato trovare la giusta misura: nel libro la violenza è mediata dalle parole, ma nel metterla in scena con delle immagini era fondamentale non essere ricattatorio, utilizzarla solo in funzione del nostro tema e non come spettacolo fine a se stesso. Ho impiegato lo stesso metodo di Alì ha gli occhi azzurri e Fiore: fare un film dal punto di vista degli adolescenti senza giudicarli, senza dividere i personaggi in buoni e cattivi».
Roberto Saviano: «Non è solo il racconto di una generazione criminale, ma di un’intera generazione. Per loro conta solo il denaro, i follower, l’aspetto. Chiunque creda che possa esistere altro, secondo questi ragazzi, ha i soldi oppure è fesso. Raccontare tutto questo dal punto di vista di bambini dai 10 ai 16 anni ha significato parlare soprattutto dei desideri di ragazzini di periferia – che non sono più desideri ’da ghetto’ ma gli stessi dei loro coetanei berlinesi, francesi o milanesi. La differenza è che i paranzini hanno come lampada di Aladino la pistola, a cui chiedere qualsiasi cosa. La pistola è il grande gioco – che poi purtroppo smette di essere tale – attraverso cui ottenere tutto.

Cosa pensa della situazione attuale a Napoli?

RS: «Negli ultimi anni è peggiorata: la camorra sta di nuovo chiedendo il pizzo ovunque, le organizzazioni si stanno riprendendo i territori. La responsabilità è dello Stato e anche europea, perché ormai il sud è completamente staccato da qualsiasi progettualità: l’emigrazione è la sola risposta possibile per le nuove generazioni. E la camorra è l’unica struttura che crede nei giovani, che sono ai vertici delle organizzazioni criminali ma non a quelli delle istituzioni e delle imprese legali italiane.

Come vi siete rapportati all’immaginario della serie tv «Gomorra», di cui Giovannesi ha anche diretto degli episodi?

CG: «Il punto di partenza è stato proprio non fare uno spin-off: Gomorra è una serie noir, noi invece volevamo fare un film sull’adolescenza in relazione alla scelta criminale. Chiedendosi cosa succede a degli adolescenti quando iniziano un simile percorso. In che modo la loro vita viene compromessa? E non mi interessava il punto di vista sociologico: volevo cercare di allargare il discorso e raccontare attraverso l’adolescenza le metropoli del mondo, il presente, i desideri della società dei consumi».

Qual è il ruolo dei genitori di questi ragazzi?

RS: «Alla generazione dei genitori di questi adolescenti è stata tolta ogni possibilità di avere un mutuo, fare le vacanze, avere la sicurezza di non dover lavorare 15 ore al giorno. In questi ambienti non sono quindi genitori autorevoli, ma da proteggere o disprezzare. Nel caso del protagonista del film sua madre diventa figlia nella scena in cui gli cede la stanza più importante della casa – una sequenza che viene dalla cronaca. E indagando le paranze dei bambini si è scoperto anche che le banche locali accettavano di dare un mutuo ai genitori di questi ragazzi: sapevano che i soldi sarebbero arrivati».
CG: «Adattando il romanzo abbiamo rimosso la figura del padre del protagonista: raccontiamo una generazione di figli senza padri che devono colmare questo vuoto. Nella messa in scena si traduce nell’assenza di un personaggio, ma nella realtà è anche quella delle istituzioni, dello Stato».