Non c’è in America, e forse non c’è mai stato, uno scrittore più eclettico di Joe Lansdale. Lo si definisce comunemente autore «di genere», ma i generi li ha traversati tutti: dalle detective stories al western, dalla fantascienza all’horror, dal noir al romanzo storico.
Qualche volta, come nel caso di Io sono Dot (traduzione di Luca Briasco, Stile Libero Einaudi, pp. 220, euro 17.50) incasellare il romanzo di turno in un genere preciso risulta impossibile. Forse anche per questo Fender Lizards, come da titolo originale, esalta e identifica i temi ricorrenti, lo stile e forse anche l’intento comune a tutta l’opera del prolifico scrittore texano con un’immediatezza negata a molti altri suoi romanzi.

Dot è un’adolescente colta nel momento di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta: una ragazza come ce ne sono tante negli Usa ma pochissime nella letteratura americana e quasi nessuna nei romanzi che arrivano nelle vetrine delle librerie e nelle liste dei best seller. Vive in una roulotte con una madre sfiorita prima del tempo, un fratello piccolo e con già pochissime speranze, una nonna bisbetica e sboccata. Sbarca il lunario distribuendo hamburger sui pattini a rotelle. Sogna un diploma come in altre fasce sociali si fantastica di incassare il primo milione entro i trent’anni: un miraggio quasi irragiungibile.
Papà è uscito per comprare le sigarette e non è più tornato. La sorella si è fatta mettere in cinta due volte giovanissima, come già la mamma prima di lei, e con l’arrivo della prole ha messo da parte ogni sogno di una vita diversa.

A modo suo la storia di Dot, simpaticissima, energica, intelligente ma bloccata da una sfiducia in se stessa che nel suo mondo entra nel sangue col latte materno e poi continua a crescere sconfitta dopo sconfitta, è un romanzo di formazione, come quasi tutti i romanzi di Lansdale. È la storia di una vittoria conquistata senza fanfare e senza retorica, solo scoprendo che ci si può opporre a un destino che somiglia a una condanna.
Quelli come Dot e la sua famiglia in America li chiamano White Trash, spazzatura bianca, con una precisa sfumatura di quel biasimo morale che fa della povertà una colpa. Hanno vissuto un effimero momento di gloria l’anno scorso, quando erano stati individuati come la base elettorale di Donald Trump, anche se in realtà ogni analisi più approfondita segnala invece che i voti per il nuovo presidente sono arrivati da una fascia lievemente più elevata, quindi più incarognita per l’impoverimento. La spazzatura bianca non spera e non vota.

In letteratura, almeno dai tempi della Depressione, quella fascia sociale è rimasta per lo più confinata nei ruoli di comprimari pittoreschi e spesso loschi. Persino più del popolo dei ghetti, i bianchi poverissimi sono da sempre i dimenticati d’America. Ma Lansdale, in tutta la sua voluminosa opera, ha fatto proprio dei dimenticati il suo soggetto privilegiato. Per questo, se scrive western, vuole che il protagonista sia un nero: non erano pochi, circa un terzo dei cow boy aveva la pelle scura, ma tanto Hollywood quanto la letteratura western hanno trascurato il particolare.
Però Lansdale non scrive solo dei dimenticati. Scrive anche per i dimenticati e lo fa con il loro linguaggio. Piroetta da un genere all’altro, calca sull’iperbole, usa tinte sgargianti perché quelle sono le storie che piacerebbe leggere ai suoi personaggi. Scrive come se raccontasse in un five-and-dime, con una birra in mano. È grazie a questo intreccio omogeneo, perfezionato di libro in libro, che la sua narrativa ha smesso di essere «di genere» per diventare un genere in sé.