Per prevenire una nuova ondata di Covid-19 nella fase 2 non basterà la app “Immuni”. Fermare un focolaio di contagio significa scovare i casi positivi, raggiungere le persone con cui sono entrati in contatto e isolarle il prima possibile. Un lavoro improbo, soprattutto quando i nuovi casi ogni giorno sono migliaia.

«Prima del Covid-19, nel servizio malattie infettive della mia Asl c’erano una decina di persone a occuparsi di tubercolosi, chikungunya, meningite», racconta Enrico Di Rosa, direttore del servizio di igiene e sanità pubblica della Asl Roma 1, un milione di abitanti. «Adesso, per gestire l’emergenza Covid-19 ci sono circa 80 persone più 8 medici assunti dalla regione». Si tratta di operatori sanitari che lavoravano in altri servizi e dirottati a rintracciare contatti e vigilare sui pazienti in isolamento.

DURANTE IL LOCKDOWN, molte catene di trasmissione si esauriscono da sole. Dal 4 maggio, con il riavvio delle attività manifatturiere, è probabile che i canali di trasmissione virale, come i luoghi di lavoro e i trasporti collettivi, si riaprano. Passata l’emergenza, la pressione per i servizi di prevenzione può paradossalmente aumentare. «Fino al 20 marzo le segnalazioni di nuovi casi arrivavano soprattutto dagli ospedali. Dopo, siamo noi che siamo andati a trovare i casi tra i lavoratori e nelle Rsa» spiega Simona Amato, direttrice sanitaria della Asl Roma 3, con un bacino di utenza di seicentomila abitanti. «Dal 4 maggio ci aspettiamo che il rischio nelle strutture chiuse permanga e continueremo sorvegliarle. Ma dobbiamo anche vigilare su quanto accade tra i lavoratori». La task force anti-Covid rimarrà in servizio. «82 persone sono state assegnate al servizio di igiene e salute pubblica e ci resteranno ancora».

ADATTARE IL SISTEMA sanitario nazionale a questa nuova fase non sarà facile. L’Azienda Territoriale Sanitaria della Città metropolitana di Milano gestisce i servizi sanitari per oltre tre milioni di persone. Qui l’attività di contact tracing è stata fatta al meglio possibile, spiega il direttore sanitario Vittorio De Micheli. «Abbiamo trasferito all’ufficio malattie infettive un centinaio di persone. In totale ci sono 250 persone impegnate nelle varie attività di prevenzione. La bufera sulle Rsa ci ha riempito di segnalazioni e abbiamo dovuto rinforzare anche l’attività ispettiva». Eppure non è bastato. «Non è che manchino persone che facciano le indagini epidemiologiche. Ma l’infezione correva più forte di noi. Un collega ha calcolato che servirebbe un operatore ogni due casi», una cosa irrealizzabile.

In realtà a Milano l’emergenza non è ancora finita. «Abbiamo ancora un migliaio di telefonate al giorno da chi aspetta il tampone o vuole informazioni sul suo isolamento. In città ci sono decine di nuovi casi al giorno, in Lombardia 9.000 pazienti ricoverati e 700 pazienti in rianimazione», spiega De Micheli. «Bisognerà riuscire a svuotare gli ospedali, sanificarli e tenere qualche centinaio di posti pronti nel caso in cui il contagio ripartisse».

MA ORA ARRIVA LA FASE 2: con il fitto tessuto di imprese manifatturiere della Lombardia, dal 4 maggio le persone ricominceranno a muoversi. «Bisogna coinvolgere nella sorveglianza molte più ‘sentinelle’ e delegare loro la decisione di mettere in quarantena i pazienti, senza attendere l’indagine epidemiologica» spiega De Micheli. «Mi riferisco ai medici di base e ai medici competenti nelle imprese. Se notano un’assenza dal lavoro per una malattia respiratoria, sono nelle condizioni di identificare i contatti prima ancora di segnalare il caso all’ufficio di igiene».

RINNOVARE GLI ORGANICI delle Asl era urgente prima e diventa ancora più urgente ora. I servizi sanitari colpiti dai programmi di risanamento della spesa hanno visto impoverirsi l’organico. «Ma la cosa più grave è che siamo invecchiati: l’età media dell’operatore sanitario è 51 anni», spiega Di Rosa. «I medici e gli infermieri giovani assunti hanno energie intellettuali e fisiche, e nell’emergenza hanno dimostrato un coraggio straordinario. Queste persone rimarranno qui anche dopo il 4 maggio».

C’è chi propone di assumere giovani anche non esperti perché il lavoro di contact tracing non richiede grandi competenze. Amato è scettica: «Per fare un’indagine epidemiologica servono persone specializzate. Molte situazioni vanno valutate in modo specifico, non basta un call center. Le persone a rischio sono state dotate a domicilio di strumenti medici collegati con il telefonino che ci trasmette i dati, informazioni da valutare insieme a quello che ci raccontano i pazienti».

Saranno necessarie anche scelte organizzative, spiega ancora Di Rosa. «Abbiamo capito che molti malati possono stare a casa, sono più sicuri loro e più sicuri gli ospedali. Ma dobbiamo garantire loro una presa in carico di chi sta a casa da parte del sistema sanitario, dai medici di base agli ospedali».