John Berger ha più volte affermato che la forma narrativa intrinseca alla fotografia è basata sull’indagine su quel che è stato: la fotografia funziona come la memoria, attraverso la ricerca di un «prima» anteriore allo scatto. Geoff Dyer, che ha iniziato la sua carriera proprio con un saggio dedicato a Berger, fin dal primo romanzo, Il colore della memoria, ha cercato di fare della propria scrittura una trasposizione di questa «forma narrativa intrinseca», arrivando a ottenere risultati sorprendenti in Natura morta con custodia di sax, dove immagina episodi nella vita di una serie di jazzisti a partire da famose istantanee che, nel testo, però, non sono mai riprodotte.

Nella sua produzione non fiction, Dyer ha spinto questa ricerca alle estreme conseguenze: L’infinito istante, il saggio sulla fotografia del 2005, che esce ora in una nuova edizione (Il Saggiatore, pp. 388, € 25,00, traduzione Maria Virdis), è l’esempio più riuscito della capacità dello scrittore inglese non solo di smantellare i generi letterari codificati, ma anche e soprattutto di trasformare l’elemento visuale in racconto, rigettando ogni criterio teorico, storico o documentaristico, a favore di una prospettiva decisamente narrativa. Dopo avere esplicitamente evitato di rifarsi ai troppo citati saggi di  Sontag, Barthes, Benjamin, prende a modello – oltre a una lista di categorie di immagini compilata da Walker Evans, alle indicazioni di Roy Striker per i fotografi di Farm Security Administration, e a un elenco di possibili soggetti fotografici redatto da Robert Frank – l’ «enciclopedia cinese» di Borges, esempio di organizzazione casuale di un materiale pressoché infinito. Il risultato è una tassonomia fotografica in cui la griglia statica della classificazione si scioglie «nella forma più libera e fluida di racconti e storie».

Dyer non descrive tanto le immagini, quanto i sentimenti, i ricordi, le riflessioni, in una parola, i racconti, che esse gli suscitano: offre prima un’impressione visionaria dello spazio che le accoglie, poi ne suggerisce i suoni, gli odori, i sapori, tutto ciò che le foto, nella loro piattezza, escluderebbero, contestualizzandole in un tempo che va oltre il momento dello scatto e cogliendo quel che c’è stato prima del clic.

Il risultato è una atipica storia della fotografia del Novecento che all’ordine cronologico preferisce una classificazione alquanto instabile, legata alla ripetizione di oggetti, situazioni e personaggi nel lavoro di grandi autori che finiscono per venire impegnati in un dialogo incessante, al di là del tempo e dello spazio. In questo senso, L’infinito istante si può leggere come una raccolta di short stories anomale intorno a temi comuni: una panchina, per esempio, non importa se immortalata da Brassaï o da Kerstez, ha un potenziale di tristezza che scaturisce ora dal suo essere «dimora pubblica per gente che non ha una casa dove andare», ora dall’aver assorbito la rassegnazione «di tutti coloro che sono stati seduti lì … costretti ad accontentarsi di aspettare sulla panchina quando ciò che avrebbero voluto era sedere sull’autobus»; se un volto rivela la relazione della persona cui appartiene con il suo mondo, una schiena, sia essa di Dorothea Lange o di Ben Shahan o di Roy DeCarava, può definire un intero contesto sociopolitico, mentre la storia della grande Depressione può «essere raccontata semplicemente attraverso le fotografie dei cappelli da uomo». Mentre la struttura del volume autorizzerebbe l’adesione al primato del soggetto in fotografia, sostenuto da Diane Arbus, il modo in cui le singole istantanee sono «raccontate» rivela come per Dyer, in realtà, «ammettere la supremazia del soggetto significa affermare la particolarità dell’artista».