«Non parlava mai di Dio. A dire il vero, era una parola, questa, che Jacques non aveva mai udito pronunciare durante l’infanzia, e personalmente non ne sentiva la mancanza. A riempirgli l’anima bastava la vita, misteriosa e prorompente». Questo emblematico passaggio è tratto da Il primo uomo, il romanzo (appena riedito da Bompiani) che venne ritrovato fra i rottami dell’automobile in cui persero la vita Albert Camus e il suo editore Michel Gallimard il 4 gennaio 1960, nei pressi di Montereau. Tale libro, che vedrà la luce solo nel ’94 dopo essere passato al vaglio di un lungo lavoro filologico da parte della figlia Catherine, è una sorta di autobiografia dell’autore, in cui il protagonista, Jacques Cormery, ricostruisce la propria formazione attraverso un fatidico viaggio compiuto in Algeria.

Su «L’uomo in rivolta»
Il fatto che Camus abbia sempre rivendicato la propria dimensione laica è un tema di approfondimento sul quale è lecito soffermarsi dopo aver letto alcuni interventi presenti nel volume collettaneo Lo stato d’assedio Per fare buon uso di Albert Camus (MC editrice, pp. 114, € 12,50), ben curato e tradotto da Riccardo De Benedetti. Si tratta di una serie di saggi di vari studiosi, soprattutto di taglio filosofico, originariamente apparsi in un numero speciale della rivista «La Table Ronde» lo stesso anno in cui scomparve l’autore dello Straniero. Il curatore avverte nell’introduzione: «La rivista era già alla sua seconda serie e dal 1948 aveva ospitato il meglio della cultura francese non riconducibile all’impegno sartriano ma non per questo meno attenta ai problemi del momento». Tra i collaboratori si annoveravano intellettuali del calibro di Mauriac, Paulhan, Aron, Jouhandeau, Caillois, Montherlant, Green, Giono, Rougemont. Camus vi scrisse fin dal primo numero, mettendo in rilievo la «distanza che lo separava dall’impostazione ideale di quella redazione» ma anche l’empatia con problematiche di cui condivideva l’approccio.
Tra i saggi proposti spicca L’uomo in rivolta di Gabriel Marcel in cui si rivisita uno dei temi portanti della poetica di Camus, quello della ribellione, appiattendo tuttavia certe dinamiche speculative intorno all’aspetto meramente teleologico. Marie-Madeleine Davy evidenzia invece i rapporti intercorsi tra l’opera dello scrittore franco-algerino e quella di Simone Weil: Camus si adoperò a più riprese per rendere noti i testi della Weil, facendo pubblicare per Gallimard le opere più importanti della pensatrice di La Pesanteur et la grâce. Asserisce la Davy: «Il senso derisorio dell’esistenza quotidiana esige per questi due esseri una scelta: quella dell’eroismo». Per Camus «l’eroe è Prometeo che reca la rivolta umana di Oreste contro Zeus» mentre, all’opposto, la Weil «al disordine del mondo oppone un ordine dal quale Dio non è assente».
Charles Moeller descrive il processo che farà approdare Camus al «pensiero meridiano», contrapponendolo al «pensiero di mezzanotte» rappresentato dall’influenza giovanile di autori come Nietzsche e Dostoevskij, presente soprattutto negli specimina dello Zarathustra e dei Demoni. Emmanuel Berl si concentra sul tema dell’assurdo mentre Jean Guitton offre qualche pagina del suo Journal scritta a ridosso della morte di Camus, rilevando come le rispettive tesi di laurea si orientassero intorno alla tematica dei rapporti tra ellenismo e cristianesimo in Plotino e Sant’Agostino.

Lirismo eschiliano e male sociale
Nonostante l’esiguità dell’intervento, molto importante è la testimonianza dell’attore e regista teatrale Jean-Louis Barrault che allestì la pièce Lo stato d’assedio. Scrive Olivier Todd nella sua biografia di Camus: «Il personaggio centrale dello Stato d’assedio è la peste, il sistema totalitario, la dittatura. Niente in comune col romanzo, a parte il mondo assurdo del terrore». Ispirato a Calderón e al Diario dell’anno della peste di Defoe, lo spettacolo debuttò il 27 ottobre 1948 presso il Théâtre Marigny, con un cast d’eccezione: oltre allo stesso Barrault, figuravano Pierre Bertin, Madeleine Renaud, Maria Casarès e Pierre Brasseur. Le musiche erano affidate ad Arthur Honegger e le scenografie a Balthus. Come mimo nel ruolo di becchino si esibì il giovane Marcel Marceau. Il teatro totale, di cui «la dichiarata ambizione è quella di mischiare tutte le forme di espressione drammatica, dal monologo lirico fino allo spettacolo collettivo, passando per la recitazione muta, il semplice dialogo, la farsa e il coro», secondo la definizione datane dallo stesso Camus, non dà i frutti sperati, conoscendo solo ventiquattro rappresentazioni.
Il tentativo di coniugare il retaggio artaudiano di Barrault (il quale, insieme a Balthus, collaborò a Les Cenci, unico dramma rappresentato nel 1935 dall’autore del «teatro della crudeltà») e quello aristofanesco di Camus si rivelerà fallimentare, producendo un canovaccio dagli esiti irrisolti, in cui l’inverosimiglianza della matrice allegorica risulta a tratti opprimente. Critica e pubblico si aspettavano una riduzione del romanzo La peste, uscito con enorme successo solo qualche mese prima (una delle fonti fu il trattato Défense de l’Europe contre la peste, pubblicato nel 1897 dal medico ed epidemiologo Adrien Proust, il padre di Marcel). Il «lirismo eschiliano» di cui parla Barrault – la peste considerata come entità «salvatrice per l’accumulo di quelle nere forze sviluppate fino al parossismo» – solo in parte si concilia con «il male sociale» concepito da Camus. Lo scrittore affermerà: «Sono certo pochi gli spettacoli teatrali che abbiano beneficiato di una stroncatura così completa. Un risultato tanto più spiacevole in quanto non ho mai cessato di ritenere che, con tutti i suoi difetti, è tra i miei scritti quello che forse più mi somiglia».