Al Qhapaq Ñan, il grande cammino delle Ande, che dal 2014 si è conquistato un posto d’onore tra i beni considerati patrimonio mondiale dell’Unesco, è dedicata la mostra presso il Muciv Museo delle Civiltà – Palazzo delle Tradizioni Popolari di Roma (visitabile fino al 22 agosto), promossa dall’Iila, Organizzazione internazionale italo-latino americana. È una rete di percorsi battuti fin dalle epoche remote, che si estende per oltre trentamila chilometri, toccando sei paesi dell’America del Sud – Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perù – e attraversando aride valli desertiche, foreste pluviali, vette vertiginose. Via di comunicazione e di scambio fra popolazioni spesso abituate a paesaggi e climi estremi, il Qhapaq Ñan è stato la culla delle civiltà che si sono succedute, dalle preincaiche ad oggi, come dimostrano anche gli oggetti archeologici, rituali o di quotidiano uso, ritrovati lungo le sue ramificazioni, esposti in rassegna, scelti dalle collezioni del Pigorini da Donatella Saviola.
Un itinerario culturale ancestrale, quindi, che riverbera la sua luce anche nel mondo contemporaneo, come testimoniano gli artisti invitati a interpretare quel caleidoscopico universo di magie e cosmologie: Gracia Cutuli (Argentina), Joaquín Sánchez (Bolivia), Cecilia Vicuña (Cile), Gabriel Vanegas (Colombia), Estefanía Peñafiel Loaiza (Ecuador), Mariano León (Perù).
In mostra, ci sono gli antichi quipu e quelli recenti. Il quipu era un manufatto tessile costituito di nodi e cordicelle delle civiltà precolombiane, che serviva per il computo di oggetti, per i censimenti della popolazione. Per i «conti» insomma, tanto da rappresentare una sorta di abaco. Ma la cancellazione violenta delle civiltà andine a opera dei conquistadores spagnoli ha fatto sparire le informazioni sull’uso preciso dello strumento, che rimangonoancora scarse.
Quel «reticolo» di fili dove si appendono ricordi e tradizioni è però un soggetto di grande rilevanza nelle opere dell’artista, poeta e attivista cilena Cecilia Vicuña (1948), che fonda il suo pensiero su un verbo sincretico: veroir, un «sentire e vedere l’infinita complessità e bellezza dell’interazione fra tutte le creature viventi».

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Nel video «Quipu Mapocho» due parole molto significative per lei formano un interessante binomio, rappresentando i poli del suo operare…
Questo video è stato realizzato per la mia personale nel Museo nazionale di belle arti di Santiago doveera inserito in una installazione. Quipe Mapocho – era questo il titolo della rassegna nel suo insieme – si articolava in una serie di otto performance rituali realizzate tra il ghiacciaio di El Plomo – il luogo dove nasce il fiume Mapocho – e la sua foce a Llolleo. L’opera è stata ispirata dal mio antico rapporto con il bambino Inca seppellito sulla cima del colle Plomo, sorgente del corso d’acqua. L’ho voluta dedicare alla lotta contro la privatizzazione delle acque in Cile e alla difesa dei ghiacciai. E al sacro paesaggio di un fiume, che oggi agonizza a causa delle contaminazioni, la siccità e il riscaldamento globale (per saperne di più, si può vedere il video a questo indirizzo https://vimeo.com /224976398).

Il quipu ha attraversato la sua arte e la sua scrittura poetica fin dalla metà degli anni Sessanta, spesso reinterpretato con la lana. Può raccontarci come ne è venuta a conoscenza?
Negli anni Sessanta, il quipu e l’arte precolombiana erano piuttosto sconosciuti in Cile; tuttavia mia zia, la scultrice Rosa Vicuna, aveva una biblioteca con molti volumi che approfondivano i temi legati a quell’arte. Fu nel suo studio che vidi un quipu sfogliando le pagine di un volume straniero e da quel momento è entrato a far parte della mia esistenza e del mio pensiero. Ho poi scelto di utilizzare nei miei lavori la lana (spesso rossa) perché nel mondo andino è il simbolo dell’acqua. Si dice, infatti, «filo di acqua, filo di vita».

Cosa insegnano – a chi voglia ascoltarle – le culture indigene odierne e quelle antiche, precolombiane?
Certamente, invitano a una prospettiva multidimensionale dell’essere in relazione al cosmo e al prossimo. Posseggono una visione della mutua interdipendenza di tutti i fenomeni.

Si occupa del «global worming» da tempi non sospetti e da decenni – quasi profeticamente – mette in guardia dai pericoli provocati dallo sfruttamento indiscriminato della natura da parte degli umani… Cosa può dirci al riguardo oggi, in un periodo pandemico e di grande crisi?
Il mio lavoro con la terra e l’acqua è iniziato nel 1966. L’attuale mutazione dei virus che passano dall’animale al corpo umano non è che il principio di una risposta biologica del mondo naturale alla nostra violenza distruttrice e alla profanazione dell’ambiente selvatico. A meno che gli esseri umani non comprendano l’intima connessione, nel loro complesso, tra tutte le forze in gioco sul pianeta, la progressiva estinzione delle diverse specie finirà per causare la nostra stessa fine.

Nel 1972 lasciò Santiago per l’Europa, ma poco dopo il colpo di stato in Cile non le permise di rientrare, condannandola a un esilio permanente. Come restituì questa esperienza nella sua arte?
Lasciai il Cile alla fine del 1972, partendo per Londra con una borsa di studio. Andavo fuori dal mio paese per studiare l’arte. Una volta lì, fui raggiunta dalla notizia del golpe militare. In risposta, scrissi il mio libro Sabor a mi (1973) e poi fui tra le fondatrici del gruppo Artists For Democracy: si trattava di una mobilitazione mondiale di artiste che collaborava con sindacati, rappresentanti del governo britannico e con parti della società civile al fine di creare un movimento internazionale di solidarietà.

Lei affida un valore taumaturgico alle parole, ha pubblicato più di venti libri e definisce le sue opere «poemi spaziali», affermando che sono «organismi». Può spiegarci meglio?
Secondo il mio modo di vedere, le parole nascono dall’interazione tra la coscienza e il mondo. Sono strutture di silenzio e suono, capaci di farci veroir (guardare e ascoltare) molteplici realtà. La loro doppia capacità – di generare e di distruggere – può avere un effetto liberatorio o di oppressione, cosa resa evidente dalla campagna di disinformazione, che sta causando morte e sofferenza in milioni di esseri.

Ci sono figure di artisti/e, scrittori/e attivisti ai quali si è ispirata e che considera illuminanti per quell’abitare il mondo» in armonia che auspica?
Sì, l’attivista Vandana Shiva, lo scrittore peruviano Cesar Vallejo e la poeta, insegnante e femminista Gabriela Mistral (nobel per la letteratura nel 1945, ndr).

 

SCHEDA

L’esposizione è il frutto di un progetto corale. È stata organizzata dall’Iila, curata da Rosa Jijón, in collaborazione con Nuria Sanz, coordinatrice del Progetto di candidatura del Qhapaq Ñan del Centro nel Patrimonio mondiale, Unesco – Parigi; José de Nordenflycht, storico e critico d’arte; Donatella Saviola, americanista del Muciv e allestita negli spazi di quest’ultimo. «La cooperazione fra i popoli – ha sottolineato Rosa Jijón – è proprio un’eredità del Qhapaq Ñan. La comunicazione e l’interscambio e la collaborazione che favorì questo sistema di cammini deve essere un esempio per il mondo che ci aspetta. Affrontiamo l’incertezza, la paura e le restrizioni, questo pianeta fragile ha bisogno della nostra attenzione e di una permanente coesione per non distruggerlo e per non distruggerci».