Repressione e paranoia vanno a braccetto. L’Egitto del golpe non è esente dall’equazione. Lo sanno bene le migliaia di egiziani che negli ultimi quattro anni hanno visto intensificare gli strumenti classici dell’era Mubarak: prigionieri politici, sparizioni forzate, torture, arresti preventivi. Lo sa anche quell’Italia che chiede verità per Giulio Regeni.

Le ultime settimane hanno mostrato i tanti volti della macchina repressiva istituzionale egiziana, che senza apparente soluzione di continuità passa dall’accusare di tentato golpe un paese straniero all’arrestare venditori di giocattoli.

Mercoledì l’agenzia stampa statale Mena ha dato la notizia della detenzione cautelare di 29 persone sospettate di essere legate ai Fratelli Musulmani e ai servizi segreti turchi. L’intelligence del Cairo li ritiene parte di una cellula intenta ad ordire un complotto per far cadere l’attuale governo attraverso un colpo di Stato. Altre cinque persone sarebbero coinvolte, ma non sono state tratte in arresto perché all’estero.

Secondo la procura generale, il gruppo è parte di un’organizzazione terroristica (la Fratellanza Musulmana, appunto, di cui il partito del presidente turco Erdogan, Akp, è membro) che riciclava denaro sporco, utilizzava la rete telefonica nazionale per monitorare telefonate di cittadini egiziani e girava informazioni agli 007 turchi. Forse per individuare eventuali crepe attraverso cui spianarsi la strada che conduce al Cairo.

I rapporti tra Egitto e Turchia si sono estremamente raffreddati dopo il golpe del generale al-Sisi, nel luglio 2013: la caduta rovinosa dei Fratelli Musulmani e la brutale repressione (iniziata con il massacro di Rabaa al-Adawiya e l’arresto dell’allora presidente Morsi e proseguita con la messa al bando dell’organizzazione e la confisca di tutti i suoi beni) provocò le reazioni di Ankara e la conseguente cacciata del suo ambasciatore dal Cairo.

Ad ampliare il gap, le diverse posizioni in merito all’isolamento del Qatar – con al-Sisi stampella di Riyadh e Erdogan salvagente di Doha –, alla crisi libica e al sostegno turco ad Hamas.

Negli ultimi tempi, però, la crisi pareva rientrata. Galeotto fu il commercio: l’aumento dell’interscambio, +30% nel primo trimestre di quest’anno, ha segnato un rinnovato interesse comune ad interagire. Ora nubi nere tornano ad addensarsi: la procura generale egiziana ha apertamente accusato i 29 arrestati (di cui non si conosce ancora la nazionalità) di spionaggio a favore della Turchia.

Che si tratti di pura paranoia o meno, è difficile dirlo. Di certo lo è nel caso delle «Sisi’s balls», le palle di al-Sisi, giocattolo del secolo scorso che stava vivendo una nuova giovinezza in Egitto, complice l’ironia che caratterizza i popoli arabi: da settimane il gioco – una cordicella con attaccate due palline di plastica colorata – va a ruba per le strade egiziane dopo essere stato ribattezzato con il nome del presidente. Dalla riapertura delle scuole, raccontano i negozianti, ne sono state vendute migliaia e migliaia.

Un’idea che non è piaciuta affatto al Cairo, timoroso che una risata possa seppellirlo: il ministero dell’interno ha arrestato circa 40 negozianti di giocattoli e confiscato le merci (1.403 pezzi solo nel governatorato di Giza) a difesa «della dignità del paese».

«La campagna è parte delle politiche di mantenimento della sicurezza, dell’ordine e della pubblica morale – dice un funzionario anonimo a Middle East Eye – e di protezione delle vite dei cittadini. \[È volta\] a combattere i comportamenti negativi che possono danneggiare i bambini e la psiche dei cittadini».

Ora le «palle di al-Sisi» sono state dichiarate illegali, togliendo a molti negozianti un’entrata sicura, almeno per qualche mese. La risata è punita, ma la sua potenza rimane.