Hon Hai Precision Industry Company è il gigante taiwanese che detiene la meglio conosciuta Foxconn (Fushikang, per i cinesi). L’azienda nata ormai quarant’anni fa (nel 1974), come produttore di plastica e televisioni, fondata da Terry Guo, è nota perché è la più grande società del mondo per quanto riguarda la produzione di componenti elettronici e per la sua disgraziata storia di operai morti, suicidi e per le lotte che si sono sviluppate all’interno dei suoi stabilimenti cinesi. In Europa, Italia compresa, è infatti diventata famosa per la serie di suicidi, almeno venti, che specie alcuni fa, avevano caratterizzato la sua travagliata storia.
All’epoca erano emersi numerosi rapporti di ong che avevano accusato la Foxconn per le condizioni di lavoro scadenti, poco sicure, straordinari non pagati e ritmi di lavoro disumani. L’azienda taiwanese finiva molto spesso nelle cronache di scioperi, scontri, proteste dei lavoratori, anche perché tra le sue attività principali c’era l’assemblaggio del ben noto Iphone prima e Ipad dopo.
Il binomio Foxconn- Apple è diventato quindi una sorta di tormentone sulla stampa internazionale, ogni volta che di mezzo c’era la Cina e i diritti dei lavoratori. Per altro i propri lavoratori solo con i prodotti assemblati, ovvero gli smartphone, , in un surreale e macabro destino, erano e sono in grado di comunicare con il resto del paese. Uomini e donne appartenenti alla cosiddetta nuova generazione di lavoratori cinesi: più agguerriti, più propensi alla protesta – condita da rivendicazioni salariali – dei loro predecessori, ma anche meno politicizzati e più pronti ad un individualismo che si traduce nel cambio del posto di lavoro per pochi yuan in più. O che aspirano a trovare un impiego nel settore dei servizi, abbandonando la linea di produzione: si tratta – in parte – di una nuova ondata di neo laureati, solo nel 2013 7 milioni, poco propensi a finire in fabbrica, essendo cresciuti nel periodo di sviluppo economico e fiduciosi, sempre meno a dire il vero, di poter diventare nuovi «padroncini», magari proprio nel settore tecnologico.
La Foxconn costituisce dunque una sorta di cartina di tornasole della società cinese, di quanto si muove nei meandri del mondo del lavoro, quello più politicizzato o meno e un esempio di come il Partito comunista controlla anche mediaticamente tutto quanto accade. Non sono pochi infatti i cinesi, magari anche con esperienza di lavoro a Shenzhen nelle fabbriche Foxconn, a sottolineare come alla fine, l’azienda taiwanese, nonostante la sua organizzazione militare e gerarchica, costituisca però un luogo di lavoro migliore di molte fabbriche a proprietà e gestione cinese, su cui i riflettori dei media internazionali e cinesi, difficilmente si accendono.
La ragione è la seguente: la Foxconn è taiwanese, e come accade in molti casi anche con altre aziende straniere (si pensi alla Honda, o al recente caso della Glaxo, per quanto riguarda lo scandalo delle tangenti nel mondo farmaceutico), sono spesso loro a finire nel mirino della stampa, perché è consentito parlare di scontri e lotte del lavoro in società non cinesi, al fine di sottolineare la volontà del governo nella difesa dei lavoratori. Non è un caso se, di fronte a scioperi proprio alla Foxconn, fu il Partito Comunista, attraverso i suoi funzionari, a chiedere un miglioramento delle condizioni di lavoro e un aumento dei salari.
C’è poi un discorso a parte che concerne le aspirazioni mondiali della Foxconn, che ultimamente ha annunciato investimenti negli Stati Uniti, per 40 miliardi di dollari. L’azienda taiwanese, infatti, assumerà 500 persone in Pennsylvania, come primo passo verso una nuova strategia: posizionarsi come leader nella produzione della cosiddetta «tecnologia indossabile»: dai Google Glass a quanto riserverà il futuro.