Contadini del Messico, indigeni dell’Amazzonia, pastori nomadi della Mongolia. Fa il giro del mondo l’elenco delle popolazioni che hanno beneficiato dell’ sostegno concreto di Source International, organizzazione no profit italiana che si occupa di difendere le persone che soffrono di inquinamento e violazioni dei diritti umani ad opera principalmente di grandi industrie estrattive. Poteri forti che provocano danni irreparabilili, agendo impunemente grazie alla facile manipolazione o all’omissione delle tracce dei loro danni. Source International cerca di fornire alle popolazioni colpite gli strumenti necessari per difendere il loro territorio: tecnologia e conoscenze che permettano di denunciare e ottenere giustizia, in una battaglia contro Golia dove in più di un’occasione Davide è riuscito a vincere. La ong è stata fondata nel 2012 dallo slancio del giovane ambientalista e attivista per i diritti umani Flaviano Bianchini, e ha sede a Pisa. Lo incontro di ritorno da una delle sue missioni internazionali.

Come è nata Source International?

L’idea è arrivata nel 2005. All’epoca ero uno studente di Scienze Ambientali e conobbi un ‘attivista guatemalteco venuto in Italia a parlare dei danni provocati nel suo paese dalle attività minerarie. Il suo discorso era molto toccante dal punto di vista emozionale, ma gli mancavano dati scientifici. In quel momento, visto che mi stavo per laureare, mi proposi di aiutarli. Ho cominciato a fare ricerca scientifica per Ong e piccole associazioni che poi utilizzavano quei dati per avviare campagne e azioni legali. Ho cominciato a viaggiare, lavorando in diversi progetti in Honduras, Guatemala, San Salvador. Dal 2007 al 2009 ho condotto assieme ad Amnesty International una campagna di sensibilizzazione sulle attività minerarie in America latina. Dopo la laurea in Scienze Ambientali mi sono specializzato in Diritti Umani e poi sono tornato a fare progetti in Argentina e Perù. Fino a che ho ottenuto da Ashoka, una rete internazionale di imprenditori per l’innovazione sociale, le risorse economiche per dare il via a Source International.

Quale è stato il primo caso affrontato?

Quello della miniera Marlin, proprio in Guatemala. Nel 2012 abbiamo ottenuto che la Commissione Interamericana per i diritti umani riconoscesse i diritti delle popolazioni indigene di etnia Sipacapense contro la Montana Exploradora de Guatemala, filiale centroamericana della potente multinazionale Canadese Gold Corp. Il caso lo stavo seguendo da prima della creazione di Source: la miniera era stata costruita nonostante l’opposizione della popolazione, prevalentemente indigena e con il contributo sostanzioso della International Finance Corporation, membro dellaBanca Mondiale, in barba a tutte le regole della Bm stessa. Le comunità locali hanno continuato a mobilitarsi, denunciando danni alla salute e inquinamento delle acque. Con raccolta dati e analisi portammo il caso prima a livello nazionale e poi internazionale. Nel 2010 la miniera venne chiusa e dopo il pronunciamento della Commissione non è stata mai più riaperta. Fu un successo non privo di ostacoli: partner locali come Monsignor Alvaro Ramazzini ricevettero minacce frequenti, anche di morte, per la loro attività di denuncia. Io stesso sono stato minacciato e ho affrontato un procedimento di espulsione dal paese: la compagnia mineraria mi ha denunciato per ben cinque reati, uno dei quali si chiama «desprestigio comercial», una sorta di danno all’immagine e alle attività commerciali dell’impresa.

Quali sono state le esperienze più significative?

Mi viene in mente l’Honduras. Gli studi indipendenti da me condotti insieme a un medico locale dimostrarono che la miniera de San Martin, che ridusse una montagna di 900 metri a 300, oltre a causare danni ambientali danneggiava seriamente e irreversibilmente la salute della popolazione della zona: cancrene della pelle dovute all’arsenico, osteoartrite causata dal piombo, mortalità infantile ampliamente al di sopra dei livelli nazionali. La Corte Suprema di Giustizia di fronte a quei dati fece dichiarare incostituzionale la legge mineraria e costrinse il governo honduregno ad abrogarla e riscriverne un’altra più rispettosa della salute. Fu un precedente storico, nonostante il successivo colpo di stato che si verificò nel paese abbia riportato le cose come prima. Un’altra vittoria l’abbiamo ottenuta in Messico: grazie al nostro intervento una comunità locale di contadini è riuscita a ottenere un indennizzo di 50 milioni di dollari per i danni provocati dall’estrazione dell’oro da parte ancora una volta della multinazionale canadese Golden Corp. Ovviamente non abbiamo solo storie di successi. Penso al caso di Cerro de Pasco, emblematico di quanto si possa arrivare a fare del male a una popolazione: in questa città mineraria di 80 mila abitanti della Cordigliera Andina, il 100% della popolazione dovrebbe essere ricoverata d’urgenza a causa dei livelli di metalli pesanti che ha nel sangue.

Fra le pieghe di questi casi ci sono sicuramente intense vicende individuali, storie di sofferenza ma anche di coraggio: ne vuoi riportare almeno una?

Tsetsegee Munkhbayar è un pastore nomade e come tutti gli altri pastori la sua vita dipende dal fiume Onggi, che attraversa la regione del Gobi in Mongolia, e dai suoi affluenti. Negli anni ’90, con l’inizio delle attività di estrazione mineraria ad opera di compagnie cinesi, venne compromesso l’accesso all’acqua dei pastori che con le loro moto o in Yack dovevano percorrere più di 30 km per approvvigionarsi di acqua potabile. Munkhbayar decise allora di dare inizio a una protesta pacifica, una marcia lungo il fiume per creare una campagna nazionale in difesa della sua regione. Le comunità locali superarono le divisioni etniche e lo elessero a rappresentante per la difesa dei loro diritti. Fondò un movimento per la difesa dei fiumi e dei laghi mongoli, per proteggere le sorgenti di acqua dalla contaminazione e dall’esaurimento e per il suo instancabile lavoro per ottenere una nuova legislazione in merito ottenne nel 2007 il Goldman Prize. Nel 2014 venne condannato a 21 anni di prigione per il suo coinvolgimento in una manifestazione di fronte al parlamento mongolo. L’accusa era di terrorismo. Noi siamo stati contattati dall’associazione da lui fondata, siamo andati in quelle sperdute valli della Mongolia, abbiamo redatto un report sulla situazione locale in termini di diritti umani e accesso alle risorse. Grazie a questo e a una campagna internazionale a Munkhbayar è stata concessa l’amnistia e può continuare a lavorare con il suo movimento. La situazione non è cambiata molto, ma per ora le attività minerarie presso le sorgenti dei fiumi sono proibite.

Quali cambiamenti avete notato negli ultimi anni?

Prima le compagnie minerarie reagivano con la forza a ogni denuncia, accusa o anche solo tentativo di dialogo. La forza fisica delle minacce e delle uccisioni, quella economica delle denunce e delle cause, e quella mediatica fatta di campagne diffamatorie e denigratorie. Di sicuro la situazione è ancora critica, pensiamo all’uccisione di Berta Caceres e alle continue notizie di minacce e soprusi, però è possibile notare un certo cambiamento nelle imprese più grandi, quelle che hanno un’immagine da difendere soprattutto presso le alte sfere a cui appartengono i loro finanziatori. Molte compagnie minerarie e petrolifere hanno capito che a lungo termine conviene più confrontarsi che arrivare allo scontro. Inoltre, i grandi azionisti a lungo termine hanno capito che i conflitti possono avere effetti negativi. Questo però vale per le grande imprese e solo in parte. Rispetto alle medie e piccole purtroppo rileviamo gli stessi comportamenti.