La trattativa più lunga del mondo. E – da ieri lo si può dire definitivamente – quasi inutile. A sei anni dalla riforma Fornero che ha stravolto il sistema, i requisiti e gli assegni – e con cui lo Stato ha risparmiato 180 miliardi che sono andati a riduzione del debito pubblico – il tema pensioni è tornato di moda nel 2016. L’idea di recuperare consensi tra i 16 milioni di pensionati alla vigilia del referendum costituzionale portò Matteo Renzi a riaprire i cordoni della borsa pubblica nel comparto dal quale Monti aveva più fatto cassa. Partì con il solito acronimo (Ape: anticipo pensionistico) e con la promessa di rivedere tutto il sistema. Pur di non incontrare gli odiati sindacati delegò tutta la trattativa al ministro del Lavoro Giuliano Poletti supervisionato dai suoi fidati consulenti – Tommaso Nannicini e Marco Leonardi.

Nella legge di bilancio 2016 fu stanziato più di un miliardo – i renziani parlarono di 7 miliardi in tre anni – per finanziare tutta una serie di interventi – Ape Sociale la più costosa – che non bastarono comunque per chiudere l’intera partita di promesse e impegni. Nel verbale del 26 settembre 2016 i sindacati strapparono al governo la promessa che l’anno successivo – questo – la trattativa avrebbe avuto la sua Fase 2. Con al centro il lavoro di cura delle donne, la flessibilità in uscita e – soprattutto – le pensioni dei giovani. Quelli di cui tutti parlano – denunciando la prospettiva che vadano in pensione a 75 anni con un assegno da fame – e nessuno fa niente.

L’anno è passato. Al governo ora c’è Gentiloni, ma Pier Carlo Padoan questa volta non si è fatto fregare. Nel testo della legge di Bilancio uscito dal consiglio dei ministri a ottobre sulle pensioni non c’era praticamente niente. Neanche i sei mesi di sconto a figlio sull’età pensionabile per le donne annunciati ai sindacati.

Ma le elezioni si avvicinano e il Pd si è fatto trascinare dalla pressione montante dell’indignazione popolare quando a metà ottobre è stato ufficializzato che dal primo gennaio 2019 tutti – senza distinzione di sesso e lavoro – sarebbero andati in pensione a 67 anni. Il 25 ottobre è toccato al vicesegretario Maurizio Martina – incidentalmente anche ministro dell’Agricoltura – dichiarare: «Non tutti i lavori sono uguali. E non tutti i lavoratori hanno la stessa aspettativa di vita per le mansioni che fanno. Le norme volute dal governo Berlusconi e poi modificate dal governo Monti sull’aumento automatico dell’età pensionabile vanno riviste e per questo serve un rinvio dell’entrata in vigore del meccanismo. I tempi per una discussione parlamentare a partire dalle commissioni preposte ci sono tutti ed io credo sia giusto prendersi tutto lo spazio utile per aggiornare questa decisione». Dichiarazioni fin troppo impegnative che provocarono una svolta e costrinsero Gentiloni a riaprire la partita, già chiusa da Padoan.

Da lì è partita una mini trattativa cominciata con la convocazione di Cgil, Cisl e Uil a palazzo Chigi – sempre un evento in questi anni renziani – da parte di quel Gentiloni che per mesi non aveva preso in considerazione la richiesta di incontro degli stessi sindacati. Un primo tavolo, altri quattro tecnici in cui il governo ha offerto piccoli contentini arrivando a sostenere di investire «ben 300 milioni». Cifre sbugiardate dalla Cgil: i milioni sono 61.

I «grandi risultati» ora sbandierati dalla sola Cisl sono dunque ridotti al solo allargamento a 15 categorie di lavoratori – alle 11 dei lavori gravosi e usuranti si aggiungono operai siderurgici di seconda fusione, marittimi, pescatori e operai agricoli – di uno sconto di 5 mesi sull’età pensionabile: dai 67 anni ai 66 anni e 7 mesi. Quanto vale questa platea: qualcosa come 4 mila italiani. Poco più del 2% del totale dei pensionandi. Non un grande risultato.