L’estensione geografica e la strutturalità del crimine contro le persone migranti riguarda ormai tutti i confini europei esternalizzati e alcuni confini interni dell’Ue. Su un «arco di barbarie» che va dai Balcani alle coste dell’Africa occidentale, assistiamo ad una mostruosa accelerazione del crimine istituzionale per effetto del concatenarsi letale di varie politiche: di abbandono a mare e di omissioni di soccorso, di respingimenti, detenzione di massa e militarizzazione dei confini. A seconda delle aree geografiche e del livello di delega da parte dell’Ue ai suoi mandanti, le violazioni dei diritti delle persone in movimento hanno quindi sfaccettature diverse, che sollevano questioni di responsabilità specifiche.

Eppure, i crimini odierni hanno una caratteristica unitaria, quella di respingere e detenere, di sacrificare la vita delle persone migranti in nome della «difesa dei confini». Tutte politiche per altro, proseguite e «legittimate» da vari «Piani» europei adottati dal Consiglio e dalla Commissione nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2015, e da ultimo nella proposta di un «Patto europeo su migrazioni e asilo» appena presentato dalla Commissione a Bruxelles il 23 settembre scorso.

Le cifre sono note: dal 2013 al 2020 si stima che oltre 20.000 bambini, donne e uomini siano annegati nel Mediterraneo. Un bilancio a cui si dà in generale poca importanza, invece, sono i circa 55.000 civili, tra cui donne e bambini forzatamente respinti in Libia, dalla firma del Memorandum con la Libia nel 2017 (fonte: Oim). Cifre che svelano quanto la macchina del crimine istituzionale sia ormai perfettamente oliata ed efficiente e porti alla tortura per delega di migliaia di esseri umani.

Respingimenti collettivi

Oggi, si deve quindi parlare del Mediterraneo come di uno spazio di eliminazione fisica pianificata dei migranti che non si vogliono fare arrivare in Europa, e dove sono in atto pratiche sottratte a qualsiasi giurisdizione effettiva. Con la delega dei soccorsi e delle operazioni di pull-backs alla Guardia costiera libica si verifica una accelerazione dei respingimenti collettivi, perché di questo nei fatti si tratta quando si assiste e si coordina la sedicente Guardia costiera libica nelle attività di intercettazione in mare. Tale delega consente all’Italia e all’Unione Europea di aggirare il disposto della sentenza Hirsi della Cedu, in quanto non si può sostenere che gli Stati europei, e segnatamente l’Italia, abbiano una «giurisdizione esclusiva» sui migranti intercettati in mare dai libici. Mentre è noto che i pull-backs delegati alle milizie libiche sono in realtà effettuati sotto il diretto coordinamento italiano e europeo, che però si vuole nascondere ad ogni costo.

Il Mediterraneo è, in questi ultimi anni, diventato un vero e proprio buco nero – frutto di una censura istituzionale che mira sistematicamente a nascondere le prove e a colpire tutte le organizzazioni non governative che continuano a prestare assistenza alle persone in fuga. Quando non bastano i decreti amministrativi si ricorre alle denunce e agli arresti per eliminare testimoni scomodi che potrebbero denunciare le responsabilità istituzionali. Restano ormai solo i corpi arenati sulle coste libiche e tunisine e le rare voci delle vittime raccolte dall’incessante e cruciale monitoraggio civile che ci permettono di venire a conoscenza dei fatti e dell’entità dello sterminio in corso.

Le responsabilità individuali, anche se non ritenute rilevanti nei giudizi di taglio penalistico a livello nazionale, possono tuttavia incardinare valutazioni di condanna davanti alle giurisdizioni internazionali, o nell’ambito dei lavori di un tribunale di opinione come il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), che aveva già qualificato, nella sentenza di Palermo questi crimini di sistema.

Un migrante salvato dalla ong Sea Eye, foto di Alexander Draheim

Criminalizzazione delle Ong

L’Unione Europea ha delegato agli stati membri di sbarco più esposti, Italia e Malta nel Mediterraneo centrale, ampi poteri di negoziazione con i paesi terzi ai quali vanno ricollegate precise responsabilità. Gli accordi bilaterali con il governo di Tripoli, del 2 febbraio 2017, che hanno assunto la forma di un Memorandum d’intesa e che sono stati ratificati nel tempo con un voto del parlamento italiano che ne ha approvato il finanziamento, non garantiscono ancora oggi soccorsi efficaci in mare e rispetto dello stato di diritto (rule of law) a terra, con conseguenti gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle persone migranti. La delega dei poteri di intervento in acque internazionali alla sedicente «Guardia costiera libica», con la creazione, nel 2018, di una zona di ricerca e salvataggio (Sar) affidata alla competenza esclusiva di questa autorità ha prodotto migliaia di vittime, ed ha permesso la progressiva eliminazione delle navi di soccorso.

Le politiche nazionali di criminalizzazione delle Organizzazioni non governative che si sono snodate prima con decisioni amministrative del ministro dell’interno, rivolte ad navem, caso per caso, poi con il decreto sicurezza bis del 2019 e quindi alla fine dello scorso anno con il rinnovo degli accordi con la sedicente Guardia costiera libica alla quale si sono forniti mezzi, addestramento ed assistenza operativa. I processi penali contro le Ong sono stati utilizzati come strumento di politica delle migrazioni anche se non si è mai arrivati ad una sentenza di condanna degli operatori umanitari. Ma dai processi penali emergono fatti precisi che possono fondare responsabilità degli Stati e configurare un principio di prova di crimini contro l’umanità.

È infatti negli atti di questi processi, da ultimo il processo che si è concluso a Ragusa con l’assoluzione degli imputati appartenenti alla Ong Open Arms, che si trovano le prove documentali del coinvolgimento delle autorità italiane nelle attività di intercettazione in acque internazionali dei migranti in fuga dalla Libia. E la Corte di cassazione, con la sentenza del 16 febbraio di quest’anno, confermando la mancata convalida dell’arresto di Carola Rackete nel caso Sea Watch (Lampedusa-2019), ha delineato un sistema gerarchico delle fonti e principi di diritto che ribaltano il principio della responsabilità dello stato di bandiera propugnato ancora dal Viminale e rendono ancora più evidenti le responsabilità delle autorità italiane che negano alle Ong un porto di sbarco sicuro.

Più di recente gli effetti della normativa emergenziale conseguente alla pandemia da Covid ed in particolare del decreto interministeriale del 7 aprile 2020 e dell’Ordinanza di Protezione civile del 12 aprile 2020 (navi quarantena), con il rafforzamento del principio di sovranità nazionale, la chiusura dei porti dichiarati «non sicuri», ma solo per le navi delle Ong che battono bandiera straniera.

Se non ci sarà una svolta autentica, sul piano politico ma anche su quello sociale, giudiziario e culturale, che implichi una presa di coscienza collettiva, se questo sistema di crimini istituzionali rimarrà impunito, è probabile che si arriverà ad un annientamento totale della persona in movimento e della sua vita.

Un limbo di non-diritto

Le politiche e le prassi di eliminazione dei migranti, trasversali e ormai strutturali nel mondo, svelano il «crollo culturale di una civiltà» che respinge e tortura impunemente l’altro, o lo fa vivere nel limbo del non-diritto. Questa molteplicità di violazioni nel mondo ci abitua ad una civiltà che «convive» con l’orrore (in diretta). Oggi, di fronte all’assordante silenzio e inaccettabile impunità in corso, sullo strenuo e ambiguo filo della omissione/commissione dei crimini, al comprovato nesso tra politiche e morti sarebbe urgente arrivare all’istituzione di un meccanismo di monitoraggio indipendente del sistema di controllo europeo delle frontiere, sul campo, vicino e insieme ai profughi, ed ai luoghi di frontiera, che ne documenti le quotidiane violazioni.

Fulvio Vassallo Paleologo è avvocato e vicepresidente Adif

Flore Murard-Yovanovitch è giornalista