Attentato o no? Ieri regnava la confusione intorno alla sparatoria che giovedì sera avrebbe avuto come obiettivo il premier designato libico, figura quasi mitologica vista l’attuale inesistenza del governo di unità nazionale promesso a metà dicembre dai due parlamenti di Tripoli e Tobruk. A minimizzare è stato lo stesso futuro primo ministro, Fayez Al Sarraj: si è trattato solo di alcuni colpi in aria.

Sulla dinamica ancora non c’è chiarezza, fedele specchio del caos della Libia del post-Gheddafi. Secondo Libya Herald, il convoglio di al Sarraj stava lasciando Zliten (città teatro del massacro di 70 reclute in un attentato dello Stato Islamico) per dirigersi verso l’aeroporto di Misurata quando è sfuggito ad un attacco: un’ambulanza piena di esplosivo stava per saltare in aria ma è stata individuata e distrutta. Diversa la versione di Libya Observer: manifestanti armati e furiosi sia per l’attacco al centro di addestramento di Zliten che per l’accordo Tripoli-Tobruk hanno bloccato il convoglio di al Sarraj fuori dall’aeroporto costringendolo ad usare un’uscita secondaria. Raggiunta la città e presentate le condoglianze ai familiari delle vittime, il premier designato è stato portato via per timore di altre contestazioni, ma è stato oggetto di colpi di arma da fuoco sparati vicino al municipio da ben cinque automobili.

E poi c’è la versione che lo stesso al-Sarraj ha riportato al ministro degli Esteri italiano Gentiloni che lo ha chiamato ieri per esprimere solidarietà: responsabile degli spari è stato un uomo che voleva essere semplicemente ricevuto dal futuro premier. Quale che sia l’effettiva dinamica dell’agguato, resta la pericolosa instabilità su cui si regge il paese: diviso in autorità diverse, tra parlamenti nemici-amici, milizie armate, gruppi estremisti, tribù, nella sterile propaganda della comunità internazionale la Libia sta per intraprendere la via della stabilizzazione.

Al telefono Gentiloni (che giovedì ha rigettato l’idea di un intervento militare, perché la Libia «non è una palestra per esibizioni muscolari») ha ripetuto il sostegno dell’Italia alla risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza Onu, che accoglie l’accordo del 17 dicembre tra i due parlamenti libici chiedendo alle parti di dare vita al nuovo governo di unità entro 30 giorni. Teoricamente entro una settimana. Un traguardo difficilmente realizzabile visto l’attuale stallo.

Per l’Europa quell’accordo è però vitale, non tanto perché permetterà – come ha detto la Farnesina – «di concentrarsi sulla lotta al terrorismo e sulla ricostruzione e pacificazione del paese», quanto perché potrebbe aprire la strada all’intervento armato internazionale agognato da Londra e Parigi. Con la Gran Bretagna che ha già mandato mille truppe scelte per mettere in sicurezza i giacimenti petroliferi, preda per un’Europa assetata di risorse energetiche, Bruxelles fa pressioni su Tripoli e Tobruk con la nota arma del denaro: al nuovo esecutivo saranno inviati 100 milioni di euro, ha fatto sapere l’Alto rappresentante agli Esteri della Ue, Federica Mogherini, durante l’incontro di venerdì a Tunisi con al Sarraj.

Soldi e sostegno tecnico e logistico, ha precisato la Mogherini, ma nessun soldato. Il pacchetto di aiuti, già messo sul tavolo ad ottobre ma mai consegnato, sarà inviato appena il governo di unità nazionale diventerà operativo.

Intanto le risorse energetiche restano il target di tutti: dopo gli attacchi coordinati contro le stazioni di petrolio di Bin Jawad, Sidra e Ras Lanuf, nella ricca area tra Sirte e Bengasi, l’Isis ha preso di mira venerdì notte la centrale elettrica che rifornisce l’est del paese. Razzi hanno colpito l’impianto di Bengasi fino al mattino di ieri provocando un incendio, poi estinto.