Hanno impiegato alcuni anni, gli ex operai della Screen Sud, per rimettere in moto la fabbrica. Fino al 2012 si chiamavano Lafer, producevano reti d’acciaio per vagliature industriali, fatturavano 7 milioni di euro all’anno e avevano sede a Nola. Poi è arrivata la crisi: dal calo delle commesse al fallimento non è passato molto. In dodici hanno deciso di riprovarci. Hanno costituito una cooperativa, racimolato 350 mila euro tra Cfi (Cooperazione finanza impresa), un fondo istituito presso il ministero dello Sviluppo economico, Coopfond, alimentato con il 3 per cento degli utili degli iscritti a Legacoop, e il fondo Sviluppo della Confcooperative. Poi, sfruttando il diritto di prelazione concesso dalla legge alle cooperative di ex dipendenti, hanno acquistato all’asta i macchinari e così la scorsa primavera sono ripartiti. Ora sono uno degli ultimi arrivati nella galassia delle imprese recuperate italiane, insieme alla Italcables della vicina Caivano, prima fabbrica metalmeccanica d’Italia riaperta dai lavoratori e assurta agli onori delle cronache quando ai cancelli si è presentato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, padre del Jobs Act ed ex presidente di Legacoop.

Miracoli? Tutt’altro. Negli ultimi anni il fenomeno dei cosiddetti “workers buyout” è in continua crescita: l’Istituto di ricerca europeo sulle cooperative e sulle imprese sociali (Euricse) ha censito in Italia 252 fabbriche recuperate, il 76 per cento delle quali distribuite tra Emilia Romagna, Toscana e Veneto, regioni nelle quali tradizionalmente il movimento cooperativo è molto forte. Ma per Andrea Bernardoni di Legacoop, studioso del fenomeno, «si tratta di dati sottostimati», perché in molti casi il recupero avviene fuori dai tradizionali canali che permettono il censimento: l’iscrizione a un’organizzazione di categoria o la richiesta di finanziamenti. Il recupero delle fabbriche sta diventando una vera e propria scialuppa di salvataggio per frenare l’emorragia di posti di lavoro e crearne persino di nuovi. Alla Gbm di Perugia, ad esempio, erano in 31, sono ripartiti in 21, in due anni sono saliti a 28 e ora stanno selezionando altri quattro operai. La vecchia azienda lavorava nel settore delle energie rinnovabili e quando, nell’agosto del 2012, l’allora governo Monti ha tagliato di botto gli incentivi, altrettanto rapidamente sono saltate il 60 per cento delle commesse e tutti i debitori hanno smesso di pagare. «Improvvisamente è finito un mondo», racconta Nicola Stabile, un ex studente fuorisede calabrese che all’epoca del fallimento era il più giovane assunto e ora può essere considerato un veterano. Per lui non tutti i mali sono venuti per nuocere: la ripartenza, dice, ha consentito pure di pensare a un «ricambio generazionale».

Sempre nel capoluogo umbro c’è una cooperativa di autotrasporti rinata dopo un fallimento: la 2012. Il presidente Cesare Patti spiega che, «anziché recuperare l’azienda, abbiamo recuperato una parte di lavoratori». A differenza che alla Screen Sud, dal tribunale i dipendenti non hanno ottenuto nulla: la vecchia azienda è stata rilevata da un’altra, che ha assunto pure i due ex datori di lavoro e si è fatta assegnare i veicoli. I vecchi dipendenti, 22 in totale, si sono riuniti in assemblea e al termine nove di loro hanno deciso nonostante tutto di riprovarci, ripartendo da zero. Il modello che si sta affermando in Europa è sempre meno simile a quello argentino sintetizzato nello slogan «occupa, resisti, produci» e raccontato nel documentario The take di Ari Lewis e Naomi Klein e in Capitalism, a love story di Michael Moore. Più pragmatico e meno conflittuale, vede l’Italia, dove le prime esperienze di recupero in forma cooperativa risalgono agli inizi del Novecento, come una punta di lancia: la gran parte dei lavoratori che hanno recuperato le fabbriche nel nostro Paese non sono passati attraverso la fase dell’occupazione e della resistenza allo sgombero forzato, ma si sono appoggiati direttamente alla rete di sostegno messa in piedi dalle organizzazioni cooperative storiche, che permette l’accesso a fondi mutualistici e garantisce il sostegno alla presentazione dei piani industriali, mentre la Banca Etica fa la sua parte anticipando le indennità di disoccupazione e concedendo prestiti. Tutte hanno però al centro le persone e la produzione, che erano marginali nelle gestioni precedenti.

Non mancano, naturalmente, esperienze più innovative, centrate sull’autogestione o su modelli cooperativi più radicali, nelle quali ciò che si produce è solo un tassello di un cambiamento più generale del paradigma lavorativo. Si ritroveranno tutte alla fine di ottobre alla Vio.Me. di Salonicco, pioniera delle fabbriche recuperate d’Europa e riconvertita dalla produzione di materiale per l’edilizia a quella di saponi e detersivi biologici. Al primo incontro «euromediterraneo», due anni fa alla ex Fralib di Gémenos in Provenza, altro luogo simbolo delle lotte per il lavoro nell’Europa della crisi, dall’Italia parteciparono i lavoratori della Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio, passata dai tubi per freni e frizioni di auto al riciclo di elettrodomestici e ai mercatini biologici, e le Officine Zero di Roma, dove si riparavano i treni notte e una parte degli ex lavoratori, insieme a gruppi di studenti e precari, si sono reinventati un coworking e altre attività artigianali, specie nel settore dei rifiuti.

Che siano recuperate in senso più tradizionale oppure “all’argentina”, questo tipo di imprese hanno tutte un elemento in comune: la proprietà collettiva dei lavoratori. Può funzionare, in tempi di individualismo sfrenato e precarizzazione dei rapporti di lavoro? Le fabbriche recuperate costituiscono, come ha scritto Naomi Klein, «un antidoto alla crisi»? Possono contribuire, nel nostro Paese, a ricostruire almeno un pezzo di quel 22 per cento di patrimonio industriale secondo l’Istat andato disperso dal 2007 a oggi? A leggere i dati dell’Euricse, la risposta è positiva: una fabbrica senza padroni ha una vita media di 13 anni, contro i 13,5 di una tradizionale e i 17 di una cooperativa, mentre il tasso di sopravvivenza delle aziende recuperate negli ultimi due anni è dell’86 per cento, il 70 per cento delle quali piccole e medie imprese, con un numero di dipendenti oscillante tra i 10 e i 49.

I ricercatori europei considerano il recupero delle fabbriche «una misura anticiclica», vale a dire capace di invertire il ciclo economico, tanto che la Commissione Ue, che fino a qualche tempo fa sanzionava i finanziamenti alle cooperative di operai come «aiuto di Stato», ha chiesto a tutti i governi di «agevolare il trasferimento delle imprese ai dipendenti», adottando come esempio proprio la legge italiana, firmata dal ministro democristiano Giovanni Marcora nell’ormai lontano 1984 e leggermente rivista nel 2001. Tutto bene, dunque? L’economista e sociologo Tonino Perna, esperto in materia, dai microfoni di Tutta la città ne parla su Radio3 ha messo in guardia dal vero nemico: l’autosfruttamento. «È vero che si tratta di lavoratori senza padroni, però se diventano subalterni a un altro tipo di padrone, il mercato, possono finire a lavorare più di prima e con salari decisamente più bassi». Per non incorrere in questo rischio, secondo Perna, c’è una sola ricetta: costruire una rete di clienti e fornitori «basata su rapporti equi e solidali», una sorta di sistema economico alternativo. In definitiva, bisogna pensare alla costruzione di un mercato senza padroni.