Nell’infilata di edifici imponenti e chiari, rivestiti di pietra o vetro, che costeggiano il National Mall di Washington, è l’unico dalla forma che sembra inafferrabile, il suo colore bruno reso più caldo e quasi cangiante dalla luce dorata di una bella mattina d’autunno.

Tra i musei che, qui nel cuore della capitale, custodiscono la storia Usa, è l’ultimo arrivato, nell’ultimo lotto rimasto disponibile nel parco – in fondo a destra, se lo si guarda da Capitol Hill; a poca distanza dall’obelisco bianco dedicato alla memoria di George Washington «il padre fondatore». C’è voluto quasi un secolo per aggiungere questo imprescindibile tassello dell’epopea americana al grande diorama del paese riflesso nel Mall. E, alla fine, dopo cinquant’anni di ostruzionismo del Congresso, è stato un presidente repubblicano, George W. Bush, a firmare l’autorizzazione per il National Museum of African American History and Culture, nel 2003. Ed è stato il primo presidente nero degli States a inaugurarlo, il settembre scorso, a poco più di tre mesi dalla fine del suo secondo, e ultimo, mandato alla Casa bianca.

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La complessa rete di significati che avvolge la storia e i contenuti di questo museo (un blockbuster, a partire dal week end d’apertura – con visitatori perennemente in coda, già dalle prime ore della mattina) si intravede ancora prima di entrarvi, nella forma, che evoca tre piramidi capovolte una dentro l’altra, e nel suo elaborato rivestimento di pannelli di alluminio colorati di bronzo, la cui filigrana è stata ispirata dalle tecniche di lavorazione del metallo di schiavi liberati in Georgia e South Carolina. «Volevo vedere se era possibile che la silhouette stessa dell’edificio fosse l’inizio della narrazione», ha dichiarato l’architetto che lo ha disegnato, l’inglese del Ghana David Adjaye. La stessa idea di trascendenza e permeabilità continua all’interno, dove il vasto atrio vetrato dialoga apertamente con l’esterno e squarci degli edifici circostanti – la Casa bianca, il memorial di Lincoln, quello di Jefferson, quello di Washington… – sono ritagliati anche nei muri delle gallerie superiori.

Le cifre dell’orrore

In realtà, il 60% del museo è costruito sotto terra. Ed è a parecchi metri sotto la superficie del Mall, come in una cripta da cui si snoda un percorso cronologico distribuito su tre piani, che dà l’avvio alla visita. Adjaye e i curatori hanno scelto, infatti, di articolare in quelle gallerie, che salgono dal basso verso l’alto, la parte storica del museo – dalla tratta degli schiavi alle recenti proteste di Baltimora e Ferguson – dividendola in tre capitoli: Slavery and Freedom, dalla schiavitù all’emancipazione, The Segregation Era, dall’emancipazione al 1968, e 1968 – Today, dalle conquiste del movimento per i diritti civili ad oggi.
Si tratta di un percorso allo stesso tempo doloroso e aspirational, inequivocabilmente accusatorio (il blocco di pietra su cui venivano esposti gli schiavi in vendita al mercato, il collare di ferro piccolo abbastanza da «calzare» un bambino, le cifre agghiaccianti della tratta umana e del suo tornaconto economico, la capanna di uno schiavo, i cappucci del Ku Klux Klan, le foto dei linciaggi… fino alla bara di Emmett Till, massacrato a quattordici anni per aver forse guardato una donna bianca), ma anche molto attento a valorizzare l’instancabile guerra contro il razzismo combattuta, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, da schiavi liberati, attivisti, leader religiosi, intellettuali, artisti, organizzazioni di donne, avvocati, politici. Accanto alla narrativa della sofferenza afroamericana – negli oggetti, nelle immagini, nei documenti e nelle lunghe didascalie informative esposti al museo- scorre anche quella di una comunità organizzata, impegnata e colta, che usa, o combatte, le istituzioni di un paese di cui si sente comunque parte fondante.

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Forse frutto di un’inevitabile cautela politica vista la difficile gestazione (anche dopo il via, nel 2003, il museo ha dovuto blindare il suo progetto con nomi inattaccabili come quelli di Laura Bush e Colin Powell e, a differenza degli altri musei Smithsonian, raccogliere privatamente metà del suo budget di 540 milioni), al di là dei pezzi esposti (3.500, da una collezione di 40mila) la grande scommessa sembra quella di provare la profonda americanità dell’esperienza afroamerican. Non isolarla come una cosa «altra».
È una scommessa – fatta di un complicato equilibrio tra identità e appartenenza – giocata soprattutto in questi densissimi tre piani a sfondo storico che, vista la folla, sono purtroppo molto difficili da visitare, a fondo e con calma. All’ombra di un aereo giallo e blu della Tuskagee Army, la leggendaria squadra di piloti afroamaricani della seconda guerra mondiale, e poco dopo la ricostruzione dello studio televisivo di Oprah Winfrey (la maggior benefattrice dell’istituzione, con un assegno da 21 milioni di dollari) l’intensa full immersion sfocia davanti a uno schermo su cui i rally di Baltimora che hanno seguito l’uccisione di Freddie Grey, si alternano al discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Philadelphia, nel 2008, e quello pronunciato in occasione dell’anniversario della Marcia su Washington di Martin Luther King, nel 2013.

La storia prosegue

Nonostante, oltre all’apparizione in video, Obama abbia anche una vetrinetta tutta dedicata a lui (e Michelle), secondo i curatori il primo presidente nero non è il punto d’arrivo, bensì un altro momento della storia – come Black is Beautiful, le Black Panthers e Black Lives Matter, o Fredrick Douglass, Nat Turner, Martin Luther King, Angela Davies e Shirley Chisolm.
Rispetto all’umore sofferto e combattivo delle gallerie storiche, una volta riaffiorati in superficie, il mood ai piani superiori è più leggero, effervescente, celebrativo. Al terzo piano è illustrata la presenza afroamericana nell’esercito, nell’industria, nella cultura, nella cucina… Al quarto – straripante di ragazzini che si fanno fotografare vicino alle statue di Michael Jordan o Serena e Venus Williams – ci sono le arti e lo sport. Anche qui la folla impedisce di fermarsi a lungo davanti a ogni vetrina, e forse i curatori hanno creato un allestimento con troppi oggetti.

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Grandi nomi e altrettanti grandi cimeli risultano molto addossati l’uno all’altro. Ma come scegliere tra la Cadillac rosso fuoco di Chuck Berry e le scarpe da tip tap e il (cappello) Fedora di Michael Jackson? Tra l’accappatoio di Alì, le calzeamaglia di Gabby Douglas o le medaglie di Carl Lewis? Tra il costume scamosciato di Melvin Van Peebles in Sweet Sweetback’s Baadasssss Song e un gilet di Jimi Hendrix? Solo la parte cinema meriterebbe un piano a sé, invece – almeno per ora – è a malapena accennata. E, rispetto alle altre, l’ala dedicata alle arti visive è decisamente ridotta.

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Pare sia stato molto difficile decidere se includere o meno Bill Crosby – caduto in disgrazia dopo essere stato accusato di aver drogato e violentato oltre una decina di donne. Alla fine, si è dovuto convenire evidentemente che il suo ruolo nella storia delle tv Usa è stato troppo importante per lasciarlo fuori. Ma – a meno che ci sia sfuggito, in qualche angolino – lo stesso scrupolo non è stato usato per O.J. Simpson, assente nella sezione che celebra i grandi campioni della Nfl.