Lavorano, in fabbrica e in redazione, bevono il tè e passeggiano per i boschi, secondo il più irreprensibile realismo socialista. Poi tutti, in ogni racconto, tirano fuori un pacchetto con un blocchettino di sostanza scura, la cui consistenza e odore sono abbastanza inequivoci. Si siedono e mangiano. Questa era la Norma dell’alienante quotidianità sovietica nella lettura di Vladimir Sorokin, angelo nero della letteratura clandestina e del postmoderno russo, scandalista per eccellenza, divoratore e dissettore della parola altrui, dotato da sempre di un fiuto rabdomantico per i mutamenti della società attraverso la lingua, e viceversa.
A distanza di trent’anni nulla è cambiato. Oggi, tra le pieghe di ognuno dei sedici racconti appena tradotti da Denise Silvestri con il titolo Cremlino di zucchero (Atmosphere, pp. 202, euro 16,00), fuori e dentro metafora, i pii e devoti sudditi di una nuova autocrazia suggono e sgranocchiano mura, torri e campanili di zucchero, ambitissimi frammenti dei modellini commestibili di cui ogni Natale il Sovrano fa dono sulla piazza Rossa. A riceverli sono i bambini – senza i quali non è data manipolazione della coscienza – ma poi è dagli adulti che vengono conservati per mesi, consumati ritualmente e spesso regalati: il cuore russo non si smentisce mai.

I sudditi continuano a essere proni, indifferenti, interamente assoggettati a un nuovo diktat ideologico, un diktat condito ora di patriottismo, religiosità superstiziosa e oscurantista, che ibridata con il culto della personalità dell’autocrate di turno ha già i connotati della teocrazia, pur conservando l’arbitrio violento delle polizie segrete nell’epoca sovietica, la persecuzione e schiavizzazione degli oppositori e soprattutto la demonizzazione dei nemici di sempre, l’America e l’Occidente, l’isolamento dai quali è garantito da misure ancora più radicali che in passato, per esempio la costruzione di una Grande Muraglia. Non fosse per quest’ultima e per le mise medievali degli aguzzini, la distopia di Sorokin si attaglierebbe perfettamente alla più stretta attualità. Immaginando a brevissima distanza (l’azione si svolge nel 2028 e il libro russo è del 2008) rivoluzioni e cataclismi che imprimono alla storia russa una radicale inversione di marcia, Sorokin non si fa beffe della verosimiglianza, piuttosto accentua il già avviato radicamento – ovvero l’eternità – delle devastanti implicazioni socio-culturali da cui muove la sua ipotesi futuribile.

Cremlino di zucchero è il secondo tassello di una trilogia dedicata al medioevo prossimo venturo, aperta nel 2006 da La giornata di un opricnik (uscito in italiano, sempre per Atmosphere, nel 2014), narrato in prima persona e con grande veemenza dal carnefice eponimo (dei pretoriani di Ivan il Terribile), e chiusa nel 2010 con La tormenta (in italiano per Bompiani nel 2016) dove, in uno stile del tutto ottocentesco, un eroe volitivo e altruista, anche lui d’antan, viene proiettato in una natura arcana e matrigna, dove può accadere che il pattino di una slitta trainata da cavallini miniaturizzati si conficchi nella narice di un gigante congelato, alto sei metri.

L’estremizzazione degli estremi è la coordinata culturale su cui più ostinatamente fa gioco Sorokin: pettini che svolazzano da soli tra i capelli e pellicce vivipare che inghiottono la neve trasformandola in calore accanto a palazzi riscaldati con le stufe a legna, ritagli di giornale al posto della carta igienica, file onnipresenti. A ogni angolo della città si incoraggia la morale con pubbliche fustigazioni, le donne girano con il capo coperto, le strade sono invase da orde di mendicanti, mentecatti, santi folli con cani elettrici e macchine intelligenti sul petto nudo. Tutti ugualmente prostrati agli strapotenti opricniki, sgherri tronfi e spietati che maramaldeggiano su supercar con teste di alani neri conficcate sul paraurti: ogni mattina nuove teste fresche. E se tutta la nomenclatura delle professioni e delle istituzioni rimanda alla Moscovia cinquecentesca, la tecnologia è sempre rigorosamente importata dalla Cina, a sanzione profetica di un vassallaggio commerciale, culturale e persino linguistico (che va ad accrescere il melting pot di sfrenati neologismi e arcaismi).

La scelta dell’epoca di Ivan il Terribile non è casuale: proprio là dove Mosca consolida rapacemente una nuova entità di stato, tagliando ogni nesso con le antiche tradizioni di democrazia partecipata, nascono la coscienza e l’identità nazionale e alloggia la memoria comune. Dell’immaginario collettivo russo nel corso dei secoli danno dunque conto, con una lingua plastica e prensile, che imita tutto quanto culturalmente riconoscibile, i racconti di Cremlino di zucchero: c’è il rito del bere variamente declinato; c’è il dolore come collante d’umanità per le congreghe di storpi erranti, per i forzati che costruiscono la Grande Muraglia, per gli orfani e le vedove dei nemici del Sovrano; c’è la sottomissione dell’operaia neoassunta che deve prestarsi nel magazzino dei Cremlini alle brame sessuali del caporeparto, con la consolazione di poter leccare di soppiatto il fatidico zucchero; c’è l’angoscia della campagna, regredita agli albori della servitù della gleba, dove i sentimenti soggiacciono all’atrofia, il tempo è pesante e sfilacciato; e c’è il piccolo uomo vittima del potere, incarnato da un nano che fa il saltimbanco a corte e cura la nostalgia per la sua nanetta imprigionata ubriacandosi con il robot-servitore che, dopo aver assistito impassibile agli oltraggi perpetrati al ritratto animato del Sovrano, lo porta a letto addormentato come un bambino.
Ogni racconto ha la sua veste stilistica, in uno spettro che va dal dramma naturalista alla letteratura erotica, ma più sorprendente ancora è il dedalo di narrazioni a cornice generato dal procedimento: la fiaba sovversiva che si materializza nell’aria durante l’interrogatorio, la spy-story alla «granderussa» nella cronaca delle riprese di un film, la salmodia ritmizzata d’insulti del nano al Sovrano, il Cremlino di cocaina (infinite le variazioni sul bianco!) che trasforma il sogno della Sovrana in delirio narcotico. Sterminata la rete di rimandi letterari e culturali, di autocitazioni (il racconto La coda è una virtuosistica replica del testo d’esordio di Sorokin) e duplicazioni simmetriche di motivi della trilogia. Tra queste, le visioni di gruppo sotto effetto degli allucinogeni si fanno emblema di un irreversibile pessimismo: se i carnefici della Giornata di un opricnik si erano mutati in un drago a sette teste per andare a fare razzia e stragi negli Stati Uniti, ora gli oppositori si trasformano in lupi per divorare la famiglia reale, e la più giovane fra loro sbrana anche il figlio piccolo del Sovrano, nelle cui tasche trova il Cremlino di zucchero, anch’esso ingurgitato.

La materia – una materia assoluta, primigenia, metafisicamente fisica – è da sempre al centro della poetica di Sorokin: dal Lardo azzurro che distilla l’essenza della creatività al Ghiaccio che racchiude occulte entità extraterestri. Adesso è l’intera società neoveteromoscovita, popolata di esseri leggeri, sodi, gonficci, di macchine morbide che si umanizzano, a mutarsi in un magma indiviso di passività, cecità, animalità. Al centro del libro c’è la visione di una bambina il giorno in cui il vero Cremlino è stato dipinto di bianco: pian piano l’entusiasmo e il turgore del sentimento travalicano, sgretolando la sintassi, la logica e la sanità mentale in un compulsivo delirio religioso.

In Russia Sorokin si ama o si odia. Non sono date mezze misure. In traduzione l’intensità materica della sua parola nuda e sempre segnata dall’impronta altrui è giocoforza smussata. Ma l’esito non si discosta poi molto dall’originale, anche grazie alle versioni di Denise Silvestri, traduttrice dell’intera trilogia, che pur non immuni da pecche – ma sorprenderebbe il contrario in un testo costantemente al limite della traducibilità – sono agili e spigliate e ci consegnano un organismo vivo, duttile e di inconfondibile singolarità.