Come non essere catturati, sin dalla prima pagina, dall’energia che sprigiona il brano di Aleksej Remizov «La Russia in fiamme», tratto dal «romanzo-collage» che trascrive gli anni 1917-1921, La Russia scompigliata? Questa la gemma letteraria, che potrebbe essere non solo l’incipit ma la lunga epigrafe per il primo volume, Fuoco, di un suggestivo trittico, curato da Mario Caramitti e articolato in una innovativa Antologia della prosa russa del primo Novecento, (Atmosphere, pp. 336, € 18,00). Poche righe sintetizzano in epitome lo sfondo di gran parte della Antologia: «Una Russia in cenci, gelida, affamata arde della parola di fuoco». Parole e immagini evocatrici, per esempio, dell’opera di Aleksandr Blok, la sanguigna che tinge i versi del ciclo Città, o il fuoco sotterraneo, minaccioso e mistico, che scaturisce nel saggio su Bakunin. Anche la prima Rivoluzione ‘fallita’ del 1905 è illustrata, ad apertura del volume, dal falò notturno nel racconto «Soldati» di Gor’kij, del quale leggiamo nella stessa antologia «Karamora», con il dostoevskiano protagonista che adombra il ceffo di Evno Azef, il delatore.

Ancora il fuoco si sprigiona dalla immancabile buržujka, la stufetta a legna o carbone, alimentata dal giovane poeta Emilij Mindlin, ospite nel 1921 della soffitta di Marina Cvetaeva, che lo trasfigura in «adoratore del fuoco» nei versi dell’Adolescente. Unica possibilità di sopravvivenza nei diacci inverni del 1919-21, l’idolo igneo della stufetta troneggia anche nel magnifico racconto «La caverna» di Zamjatin, negli anni Sessanta tradotto per le ormai introvabili antologie curate da Pietro Zveteremic o da Maria Olsoufieva. Freddo, fame, tifo, sangue, tristi cavalieri di un’Apocalissi laica battono la Russia di quegli anni, le strade di Mosca, di Pietrogrado, di Kiev.

Saltano le tubature per il gelo, i piani alti disabitati si riempiono di escrementi e la popolazione allo stremo, sfigurata dalla carestia, assume – come nel racconto di Zamjatin – i connotati di un arcaico cavernicolo, impastato di fango primordiale, che regredisce allo stadio pliocenico di «mammut». Come in Cecità di Saramago, l’essenzialità dell’istinto di sopravvivenza cancella regole e ritegno, così nella Caverna di Zamjatin il corpo, che va assimilandosi a un rigido minerale, invoca calore, e il furto di tre ciocchi di legna al coinquilino stabilisce un diritto primario.

Pagine dalla guerra
Gli scrittori nutrono il dio «ingordo», bruciando libri e manoscritti, mentre nella notte gli abitanti delle città spaccano cancelli, palizzate, fanno a pezzi la mobilia, come ricorda Cvetaeva nei versi e nei diari di quegli anni. Imperversa il fuoco degli incendi, e i «rossi galletti» dei falò agli angoli delle strade, dove si scaldano le pattuglie di guardia, punteggiano, come in Osip Mandel’štam, il «nero velluto della notte sovietica» o la provincia russa del 1919 nell’Anno nudo di Boris Pil’njak.

La domanda avanzata da Caramitti: «Come esprimere l’indicibile e il disumano?» aveva già inquietato gli scrittori, che nelle pagine da lui raccolte sembrano rispondere spesso in prima persona, narratori-protagonisti di leggendarie battaglie, testimoni di crudeltà e ottundimento. Dalla ribellione contro il vecchio regime oppressivo alla violenza familiare, fino all’assassinio feroce del figlio, o al parricidio legittimato nel brano dell’Armata a cavallo di Babel’. Molte le pagine dedicate alla guerra, battaglie furibonde e disumane, con le sequenze di soldati rossi e soldati bianchi, di cosacchi, tedeschi, pan polacchi, il sovrapporsi di uomini, cavalli, mitraglia, sciabole, bandoliere nelle pagine di Babel’ o di Šolokov; l’ansante fuga di Nikolka Turbin, braccato dai rivoluzionari di Petljura, sgranata in dettagli nella resa della Guardia Bianca di Bulgakov.

Ecco l’iperbolico, irreale scontro fra i due treni blindati «N.° 14-7 Béla Kun» e «L. G. Kornilov», metafora antropomorfa di bianchi e di rossi – «la pelle del blindato si lacera…mulinano brandelli di capelli di metallo» – nella prosa ‘ornamentale’ del racconto «Notte» di Nikolaj Nikitin, uno dei giovani prosatori dei Fratelli di Serapione, annoverati tra i poputciki, i ‘compagni di strada’. Pagine scritte dal testimone oculare che si giovano di uno straordinario cinetismo delle immagini, con primi piani di volti stagliati, fermo-immagine e campi lunghi che rinviano al montaggio in Ejzenštejn e Dziga Vertov. Distribuito fra campagna e città, lo sfondo dell’Antologia evoca un medesimo panorama brutale e abbrutito, mentre la natura, così di frequente umanizzata e luogo di metafore audacissime, mostra ora il suo volto ferino. L’uomo si fa lupo, come nel racconto di Nikitin – dove vengono evocate le forze elementari scatenate dalla Rivoluzione – o nei romanzi sperimentali di Pil’njak, rappresentato in questo libro dalla secca, documentaria scrittura della «Storia della luna che non s’è spenta», la cronaca di una morte di Stato, forse il preordinato assassinio del comandante Michail Frunze.

L’Antologia si dipana e si dispone a sua volta come una composizione letteraria che aggira l’abituale assemblaggio di ‘brani esemplari’, manovrando invece il materiale secondo un disegno intenzionale, un «principio tematico», orientato dal gusto personale reso evidente nella Postfazione, dove il curatore illustra le prose scelte e anticipa la struttura dei prossimi due volumi, sottolineandone la forma di trittico e la distribuzione delle parti con i nomi di autori già noti al pubblico italiano – da Belyj a Mandel’štam, da Remizov a Zošcenko, da Tynjanov a Cvetaeva, Chlebnikov, Bulgakov, Platonov. Vale, per molti di questi autori, la chiusa del commento che Caramitti riserva all’enigmatico racconto di Pasternak «Binari in aria» – «mosaico semico ininterrotto» – che mette in luce «la rara intensità della grande poesia russa tradotta in prosa». A questo primo libro, Fuoco, seguirà un secondo, Sogni, che rispecchia «la tensione utopica» e «l’intensità espressiva dell’anima russa», mentre a suggello del trittico la terza parte, Segni, verrà dedicata «alla scrittura più apertamente innovativa e sperimentale».

Al centro di ogni volume di prose, un «cuore poetico», qui figurato dal poemetto I dodici di Aleksandr Blok, riproposto nella versione di Cesare De Michelis, che mima il ritmo popolare della Castuška, a tratti con toni da Beggar’s Opera. Se il colore rosso del sangue e degli incendi domina con la sua vampa titolo e sfondi di questa raccolta, altrettanto dinamico vortica al suo centro il bianco della tormenta di «neve a imbuto avviticchiata», emblema anch’essa della Rivoluzione.

Virtuosisimi della traduzione
Non c’è quasi giorno o luce diurna nei racconti, che scelgono invece più spesso l’oscurità, la notte in cui sprizzano le faville dei falò, le scie delle mitragliatrici, le orbite infuocate del fratello minore morto, partito spavaldamente alla guerra, nel racconto di Bulgakov «La corona rossa». Fra le traduzioni, tutte impeccabili, certune spiccano per un vero e proprio virtuosismo: fra queste la resa del parlato, lo skaz’ della tradizione orale, in un racconto tra i più sorprendenti, «La parola al compagno Curigin» di Zamjatin, che scava la figura indimenticabile del giovane Stepka, con la sua ingenua fede rivoluzionaria, l’incongrua morte, accanto all’indicibile mutilazione di Egor’ – inutile eroe di guerra – trasportato «come un sacco di avena» inerte, le gambe troncate di netto, a memento dell’insensatezza della guerra.