Apocalisse è una parola che i residenti di Beirut hanno ripetuto spesso negli ultimi giorni alla ricerca di un vocabolo che catturasse il trauma dell’esplosione del 4 agosto e la consapevolezza che la loro città non sarà mai più come prima.

I media locali e internazionali hanno dato mimeticamente eco a questa parola, per dare un nome all’immagine scioccante del fungo macroscopico che si è levato sul cielo di Beirut, distruggendo la città sotto. Nel suo uso comune, apocalisse evoca la fine di tutto, anche se nel suo significato originario di uso biblico vuol dire piuttosto ‘disvelamento’ del male.

È forse in questo senso che si deve intendere la simbologia ‘apocalittica’ dell’esplosione del 4 agosto a Beirut. Ad essere smascherato del tutto (in realtà già da tempo) è il sistema di potere che ha creato le condizioni perché ci fosse quell’esplosione e perché i residenti di Beirut fossero esposti ad essa. 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio ‘parcheggiate’ al porto per oltre 6 anni sono un crimine a priori, che cioè trascende le responsabilità particolari che hanno provocato – incidentalmente o con dolo (chissà se mai lo sapremo) – l’incendio del deposito di fuochi d’artificio e poi l’esplosione. Ma la polverizzazione di mezza città non rappresenta la fine del Libano. Il ‘dopo’ è evidentemente già cominciato ed è già terreno di sconto politico, ideologico e morale.

Se c’è una cosa su cui tutti sono d’accordo, almeno retoricamente, è che il Libano necessiti di un nuovo ‘patto sociale’. È ciò che la società chiede da tempo, è quello che si impone all’élite politica (che comunque rimane in carica), è quello che il presidente francese Macron, volato a Beirut il giorno dopo l’esplosione, ha proposto senza curarsi dell’allure neo-imperiale dei suoi toni (si ricordi che il Libano è nato da un mandato francese).

Ma se diversi attori invocano un ‘nuovo Libano’, le loro idee su come rifondare lo Stato sono in realtà assai diverse. Nella letteratura apocalittica, alla rivelazione del male segue la liberazione da esso. Ma se ciò che verrà dopo il 4 agosto sarà per il Libano una ‘liberazione’ da un sistema che ha esaurito la sua legittimità, oppure solo la riproduzione distopica dello status quo ante dipenderà dall’esito dello scontro dialettico in corso.

Da un lato, c’è lo Stato che la società civile libanese domanda da almeno tre decenni (i.e. dalla fine della guerra civile), con voci differenti e complementari: uno Stato egalitario che corregga la spettacolare diseguaglianza socio-economica del paese (in Libano lo 0,1% guadagna quanto il 50% della popolazione libanese). Uno Stato più rispettoso del territorio, dell’ambiente e del mare, tra i più inquinati del mondo.

Uno Stato più centralizzato nella fornitura di servizi essenziali come l’elettricità (che il Libano non riesce a garantire per 24 ore al giorno, perché ostaggio del monopolio privato dei generatori di corrente che suppliscono alla ‘carenza’ dello Stato, presentata come incidentale ma in realtà deliberata). Uno Stato non confessionale, come d’altronde prevedeva già l’accordo di Taef del 1989 che pose fine alla guerra civile.

A ottobre 2019, l’ultimo anello della catena di queste mobilitazioni ha posto le dimissioni di tutti i capi partito come unica, ultima e innegoziabile condizione per risolvere l’ennesima crisi economica e sociale del paese. A gennaio 2020, un nuovo governo formato da Hassan Diab (che si è dimesso il 10 agosto) ha cercato di creare l’illusione di un cambiamento, senza in realtà toccare i cardini del potere neoliberale, cleptocratico e autoreferenziale che regge il paese.

Dopo il freno che l’emergenza sanitaria del Covid-19 ha imposto alla protesta, le manifestazioni sono riprese a fine lockdown e l’esplosione del 4 agosto ha solo dato nuova linfa alla collera sociale. Un nodo tuttavia resta: come superare l’incapacità della protesta di rompere dal basso il solido patto tra i partiti politici che hanno letteralmente in mano tutta l’economia del paese?

Infatti, nonostante l’esplosione del 4 agosto abbia rimosso ogni dubbio sull’illegittimità dell’élite al potere, quest’ultima sta già cercando di riproporre il vecchio Libano in vesti nuove. E nemmeno così tanto, dato che tra i nomi che circolano per formare il nuovo governo figurano figure ben note, come l’ex premier Saad Hariri.

Mentre la piazza ha simbolicamente preparato cappi d’impiccagione per i governanti, questi hanno avanzato la proposta di un ‘governo di unità nazionale’: l’ennesimo, scaduto tentativo di sfruttare un evento catastrofico per congelare ulteriormente il confronto con la cittadinanza, senza resistere alla tentazione della violenza. Le proteste esplose a Beirut negli ultimi giorni sono state represse dalla polizia, dall’esercito e cecchini in borghese che hanno sparato sui manifestanti, ferendone oltre 700.

L’élite neoliberale che ha governato il paese dall’inizio degli anni ’90 (e in alcuni casi da prima) è divisa ideologicamente ma unita pragmaticamente sull’idea del Libano come Stato al servizio degli interessi privati: un ordine da sempre fondato sul culto economico-finanziario del laisser faire che, sposatosi con la pressione globale del neoliberalismo economico post-guerra fredda, ha rafforzato le gerarchie sociali a vantaggio dell’élite stessa, sdoganando una megalomania cleptocratica elevata a vera e propria raison d’état.

Il disprezzo per la vita umana, impressa nelle politiche economiche e del lavoro, lo sfruttamento e la disumanizzazione sistematica delle classi povere e medie, della manodopera importata anche attraverso il sistema padronale della Kafala, lo sfregio del territorio, dell’ambiente e del mare non sono che implicazioni inevitabili di questa idea di Stato: un avamposto del capitalismo globale gestito da élite transnazionali e assai poco ‘nazionali’.

D’altronde, le famiglie che governano il paese attraverso i propri interessi privati in molti casi hanno doppia nazionalità, conti bancari all’estero, parlano a stento il dialetto libanese e vivono buona parte del loro tempo fuori dal paese, grazie anche alla protezione di Stati esterni.

A questo sistema fa da complemento Hezbollah che, pur contando su un network economico-finanziario autonomo e legato in buona parte all’Iran, si è spesso servito della copertura dello Stato, offrendo complicità agli altri gruppi di potere, per poter mantenere il proprio potere militare e politico all’interno e all’esterno del Libano.

Ci sono infine le potenze esterne – Francia e Stati Uniti in primis, ma anche Russia e Turchia – che hanno già visto nell’esplosione del 4 agosto un’occasione aurea per ricorrere al vecchio strumento dell’‘assistenza’ estera – inventato dall’articolo 22 della Carta della Lega delle Nazioni (1919) che creò i mandati internazionali in era imperiale per supplire all’incapacità delle élite locali di governare autonomamente – per elevarsi a ‘sovrani esterni’.

Anche quest’idea di Stato libanese non è affatto nuova ed evidentemente non del tutto obsoleta, visto che 60.000 libanesi hanno firmato per chiedere alla Francia di imporre un mandato sul Libano per i prossimi 10 anni.

Francia e Stati Uniti, assieme a Israele, mirano a preservare una longa manus imperiale sul sistema politico libanese, mettendo al sicuro una élite di protégés neo-imperiali e filo-occidentali (che rimpiazzi la precedente), funzionale a rendere il Libano ancillare alla sicurezza d’Israele, ponendo la disintegrazione di Hezbollah come condizione per sbloccare aiuti, prestiti e protezione esterna.

C’è poi l’Iran che, seppur in una posizione difficile, mira a salvare il potere di Hezbollah per mantenere la propria influenza sul Levante arabo.

Infine ci sono Turchia e Russia che si inseriscono nella partita geopolitica in corso senza appoggiarsi su una forte struttura di relazioni con il Libano, ma con l’intento di estendere sul Libano l’influenza che già esercitano sulla Siria e inserirsi (soprattutto la Turchia) nella partita geostrategica per lo sfruttamento dei giacimenti di gas nel Mediterraneo.

Quale idea di Libano prevarrà dopo questa simbolica rottura, mentre alcuni libanesi continuano a chiedere uno Stato al servizio dei cittadini, altri stanno impacchettando quel che resta loro per lasciare il paese, altri non avranno mai un visto e le risorse necessarie per farlo, e altri ancora hanno accolto Emmanuel Macron in pompa magna, dimenticando che i diritti difficilmente vengono calati dall’alto ma più faticosamente vanno conquistati e difesi dal basso?

Così come avvenne al tempo del ‘patto nazionale’ che nel 1943 inaugurò il Libano indipendente, le idee di ‘Stato libanese’ restano molteplici e in competizione tra loro. Se una nuova negoziazione del patto sociale appare inevitabile dopo l’esplosione del 4 agosto, quel che spicca è lo straordinario scollamento tra lo Stato rivendicato dalla società e quello che dall’alto e dall’esterno cerca di imporsi ancora una volta sul Libano.

Il vero scenario apocalittico potrebbe in realtà ancora venire: l’alienazione completa dei cittadini da uno Stato che si rivela in tutta la sua feroce arbitrarietà, senza neppure più l’illusione del ‘patto sociale’.