Poteva essere l’occasione per recuperare lo spirito della Costituzione del 2008 – quella elaborata nell’orizzonte del buen vivir come nuovo modello di civiltà – ma è difficile che la consulta popolare lanciata dal presidente ecuadoriano Lenin Moreno possa davvero assolvere questo compito.

DEI SETTE QUESITI SELEZIONATI tra le 500 proposte giunte dalla cittadinanza – a cui l’elettorato sarà chiamato, alla fine dell’anno o all’inizio del prossimo, a dare risposta, sempre che la Corte Costituzionale dia il via libera – è in particolare su quello relativo alla cosiddetta «rielezione indefinita» (con il divieto per tutte le autorità elettive di candidarsi alla stessa carica per più di due mandati) che si è acceso lo scontro politico. Un braccio di ferro tra le due correnti di Alianza País, quella che fa capo all’attuale presidente, difensore del principio dell’alternanza (e deciso a scongiurare la ricandidatura del predecessore) e quella rimasta fedele a Rafael Correa, secondo cui l’eliminazione della rielezione indefinita (inserita nella Costituzione nel dicembre del 2015 per consentire a Correa di ricandidarsi a partire dal 2021) limiterebbe la libertà di scelta dei cittadini.

OGGETTO DI SCONTRO POLITICO è anche il quesito che propone di riformare il Consiglio di partecipazione cittadina e di Controllo sociale, creato per promuovere partecipazione e trasparenza, ma accusato di servire gli interessi “correisti” e coinvolto in casi di corruzione. Sicuramente meno divisivi sono il quesito sull’interdizione perpetua dai pubblici uffici per chiunque sia condannato per corruzione – nessuno ha il coraggio di opporvisi, dopo l’arresto del vicepresidente Jorge Glas -, quello relativo all’eliminazione della prescrizione per abusi sessuali contro minori e quello che propone la deroga dell’imposta contro la speculazione nella vendita di beni immobili (considerata nociva per il settore edilizio).

Grande importanza infine, assumono i quesiti sull’incremento di almeno 50mila ettari della zona intangibile del Parque Nacional Yasuní, la riduzione dell’area di sfruttamento petrolifero da 1.030 a 300 ettari e il divieto dell’attività mineraria in «aree protette, zone intangibili e centri urbani».

SI TRATTA DI MISURE importanti in un Paese in cui, contro il dettato stesso di una Costituzione che, unica al mondo, riconosce i diritti della natura, Rafael Correa si è lanciato in uno sfruttamento a larga scala delle risorse minerarie, indicando «il radicalismo di sinistra, l’ecologismo e l’indigenismo infantile» come i maggiori nemici della sua «Rivoluzione Cittadina».

Lo stesso Paese in cui, nel 2008, il governo ecuadoriano aveva rinunciato allo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi all’interno dello Yasuni, una delle aree di maggiore biodiversità del pianeta, abitata da popoli in isolamento volontario, in cambio della creazione da parte della comunità internazionale di un fondo di compensazione di 3,6 miliardi di dollari (pari alla metà dei guadagni che il Paese avrebbe ottenuto dall’estrazione di petrolio nell’area), in quello che era sembrato un nuovo e rivoluzionario modo di affrontare la questione del riscaldamento globale. Salvo cinque anni più tardi dire addio all’iniziativa, attribuendo la responsabilità del fallimento all’indifferenza della comunità internazionale, che aveva messo insieme solo lo 0,37% dei fondi previsti.

SE È PROPRIO LA PRESENZA di questi temi, oltre che il profondo risentimento nei confronti di Correa (accusato di aver tradito la Costituzione – 23 cambiamenti in 9 anni -, adottato comportamenti autoritari e criminalizzato la protesta sociale) a indurre movimenti come la Conaie, principale pilastro del movimento indigeno ecuadoriano, a sostenere la consulta popolare, l’entusiasmo non è alle stelle.

I due quesiti in questione incidono poco sul modello estrattivista che ha caratterizzato il correismo. Ben diverso sarebbe stato se, come voleva il movimento Yasunidos, la popolazione avesse potuto pronunciarsi direttamente sulla possibilità di lasciare il petrolio sotto terra.