Cosa sta diventando il cinema, quali saranno le sue prerogative narrative e stilistiche, in che modo verrà fruito, come e quando continuerà a far parte della cultura contemporanea, sono tutte domande a cui è difficile dare una risposta oggi. Per cui può sembrare sin troppo ambizioso il titolo del libro di Franco Marineo Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni (Einaudi, pp. 301, € 26). Ma in realtà non si tratta di fornire i prolegomeni al cinema che verrà, o almeno non con la certezza stentorea che sembra baluginare, quanto piuttosto di osservare quanto è accaduto negli ultimi anni e di trarne alcuni utili spunti di carattere generale.

Come scrive Marineo nell’introduzione questo libro funziona piuttosto come freeze frame, come un fermo immagine scattato in questo momento, di quanto sta avvenendo nella settima arte. Il fatto è, e qui iniziano per così dire i problemi, che questo istante congelato ha comunque una sua durata interna, che ha senz’altro un momento spartiacque con l’11 settembre 2001. E’ lì che tutta una serie di indizi rinvenibili ad esempio in un film come Fight club (1999) di David Fincher trovano un loro conclamato disvelamento.

Quella tensione strisciante, psichica, verso la fine che avvolge la cultura occidentale di fine millennio trova nell’attacco terroristico alle Torri gemelle il suo momento di convergenza dando il via ad un rinnovato interesse di registi e produttori verso film incentrati sulla sindrome d’accerchiamento, la paranoia, la ricerca di un nemico tornato peraltro subito dopo l’attentato a nascondersi.

Ecco perché, assieme a film come Nella Valle di Elah o Redacted, trovano posto film come La guerra dei mondi di Spielberg e Va e uccidi di Johnathan Demme. A molti sembra più che opportuno sottolineare il riproporsi di un clima da anni cinquanta, tra guerra fredda e Corea.

Gli immaginari globali non si esauriscono con l’analisi del cinema americano o europeo, e qui uno dei meriti di questo libro, ma con l’indagine di quel vero fenomeno di iperproduzione a bassissimo costo che è Nollywood, ovvero l’industria cinematografica nigeriana.

Il racconto di come si fabbrica e come si consuma in quel paese il cinema è molto interessante, si parla piuttosto di un cinema da bancarella, consumato in casa o in alcuni micro luoghi (bar o localini) adibiti a piccole sale da proiezione. Per quanto riguarda la mole di film prodotti siamo su cifre da capogiro, per l’Italia impensabili: circa 2500 film all’anno. Ciascuno dei quali costa in media tra i 15000 e i 20000 dollari. In un paese in cui è ancora fresca la memoria di una guerra che ha dilaniato etnie, sette e confessioni, il cinema riesce ad essere un fattore identitario, attraverso il quale la società nigeriana esprime il suo desiderio di affermazione e di indipendenza dalle grandi potenze straniere che ieri come oggi cercano di colonizzarla.

“Oggi, nonostante il massiccio ricorso a generi leggeri o a storie di facile fruizione commerciale, il cinema di Nollywood è certamente portatore di una prospettiva percepita come autentica: esiste una sorta di realismo che prescinde dai generi trattati, dal grado di finzione che sostanzia le storie raccontate e che è figlio dell’approccio al cinema di questi professionisti e amatori. E Nollywood continua ad essere uno dei pochi esempi di auto rappresentazione mediale reperibile in Africa, uno dei rari momenti in cui una parte di Africa riesce a costruire un’autonoma e (se così possiamo dire) autentica visione di se stessa.”

Ma a parte le migrazioni dell’immaginario, che cos’è cinema oggi? Domanda sempre difficilissima se non epocale a cui rispondere, tanto più nel momento in cui ci troviamo in mezzo ad una sua gigantesca mutazione genetica. Ormai perfino in Italia si sono accorti dell’importanza delle serie televisive come campo per sperimentare altri racconti, altri dialoghi, altre scene rispetto a quelle del grande schermo. E lo stesso si potrebbe dire del mondo dei fumetti che dal Batman di Chris Nolan al Sin City di quello che è sicuramente uno dei grandi storyteller di questo periodo, cioè Frank Miller, la narrazione a strisce ha generato non solo una caterva di trasposizioni ma anche la rigenerazione di un modo di essere del cinema cosiddetto popolare, sempre alla strenua ricerca del pubblico giovanile, la chiave di volta per l’industria.

Stiamo parlando non solo del cinema che succhia soggetti da forme espressive altre, ma dell’ibridazione con mondi che concepiscono chi sta dall’altra parte non solo come uno spettatore passivo ma come un protagonista, un creatore di realtà. Prendiamo ad esempio l’universo narrativo dei videogiochi, qui chi gioca scopre man mano che procede la propria realtà in funzione di scelte personali che variano da giocatore a giocatore. Creando universi narrativi a misura d’uomo.

Un altro discorso lo merita il rapporto tra l’immagine cinematografica e la rete, in cui le immagini confluiscono sotto forma di contenuti e pronte, o disponibili, per essere manipolate, condivise, ricreate a seconda della funzione che l’utente ha deciso di assegnargli.

Come avrete notato qui abbiamo parlato di volta in volta di spettatore, fruitore, giocatore, utente, sono solo alcuni dei molti nomi che potrà assumere nei prossimi decenni l’esperienza cinematografica. Forse li assumerà tutti insieme. O forse ne creerà a sua volta un altro, ancora più nuovo e più totalizzante.