Proverbialmente tarda la ricezione dell’opera di Italo Svevo, tardissima è stata la sua cosiddetta canonizzazione prima grazie alle dispense universitarie sul romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti poi grazie al lavoro di un suo allievo d’ eccezione, Mario Lavagetto, che nel 1975 pubblica da Einaudi, titolo programmatico e dunque bipolare, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, e nel 2004 introduce e coordina i «Meridiani» Mondadori, tre imponenti e impeccabili volumi delle opere complete a cura complessiva di Nunzia Palmieri, Federico Bertoni, Fabio Vittorini e Clotilde Bertoni. A lungo rare anche le monografie disponibili, sia pure talora di notevole livello, e qui, oltre a quella pionieristica di Bruno Maier (Mursia, 1961), andrebbero almeno menzionate quelle di Eduardo Saccone (Commento a Zeno, il Mulino, 1973), di Enrico Ghidetti (Editori Riuniti, 1980) e Alberto Cavaglion (Bruno Mondadori, 2000) unitamente a una singolare Vita scritta di Italo Svevo (a cura di Marco Marchi, Le Lettere 1998) che però è un montaggio cronologicamente ordinato di pagine dell’autore medesimo.
Persino ovvio che topos primario di ogni indagine sveviana sia il tema del doppio e torna infatti al modo di una antitesi nel titolo dell’ottima biografia a firma di Maurizio Serra, Antivita di Italo Svevo (Nino Aragno editore, pp. 393, € 25,00) che sa acquisire e integrare i contributi precedenti vagliando una bibliografia secondaria (specie la documentazione locale, le testimonianze laterali o disperse) che il tempo ha reso impervia. Serra, va detto subito, è uno storico della cultura che utilizza di prima mano sia le principali lingue europee sia gli strumenti della comparatistica, come nel caso di almeno due recenti biografie direttamente uscite in francese (Marinetti, L’Herne, 2008 e Malaparte, Grasset et Fasquelle, 2011, poi Marsilio, 2012) cui va aggiunto il presente volume già edito una prima volta nel 2013 come Italo Svevo ou l’antivie, sempre da Grasset : di formazione diplomatica, Serra rispetta il vincolo della filologia ma non indulge in tecnicismi, dei testi analizzati tende a evidenziare sempre il nucleo storico (prima documentale che non monumentale, stando alla classica endiadi) perimetrando i dati circostanziali e contestuali, mentre il suo stile espositivo è asciutto, diretto. Nel suo diagramma biografico egli muove non tanto dalla duplicità dello pseudonimo sveviano quanto dalla ambiguità di una maschera che mentre protegge l’autore dalla esposizione di sé in piena luce, come fosse davvero un dilettante o un clandestino della letteratura, intanto gli garantisce la dinamica di una scrittura (implacabile, ossessiva pure quando rimossa, impedita o repressa) che pare avere fatto suo il motto attribuito a Cartesio, larvatus prodeo e cioè «procedo mascherato».
Ma che cosa, tutto questo, significa? E che cos’è di fatto quel corrispettivo speculare della vita che lo studioso definisce «anti-vita»? È una vita solamente vicaria, surrogatoria, parassitaria, ovvero è una esistenza perfettamente altra, autonoma e bidimensionale, che si distende sulla pagina in termini opposti e complementari a quella che il signor Aron Hector Schmitz, ex impiegato di banca e poi fortunato manager industriale, si trova a incarnare nell’altra che diremmo invece in terza dimensione? In effetti si tratta di due vite propriamente dette, speculari, e che, se valutate l’una rispetto all’altra, risultano alla lettera paradossali.
A proposito de La coscienza di Zeno (1923), il capolavoro che emerge improvviso oltre il quarto di secolo in cui Schmitz ha abiurato da quanto si è convinto essere cosa indecente e ridicola, oltre che fallimentare, appunto la letteratura (Una vita risaliva al 1892, Senilità al ’98), Serra valuta in questi termini la disparità dei temi autobiografici che costituiscono la materia prima del romanzo, quali il vizio del fumo, la morte del padre, il matrimonio e l’adulterio, l’associazione commerciale e così via: «Queste tappe esistenziali, solo apparentemente coerenti, non costituiscono la vita in sé ma la rappresentazione che il protagonista vuole darne, dominata dalla volontà di mascherare/mascherarsi, ossia di indicare ‘altro’. È precisamente questo ‘altro’, o ‘anti’, e non la vita di tutti i giorni, il tema del libro. Il racconto delle sue tragicomiche avventure – o più spesso non avventure – non mira a istruire, commuovere, divertire il pubblico ma offre al protagonista il pretesto per mettere in ordine i pezzi scompaginati del suo puzzle esistenziale che in realtà non potrà mai essere ricostruito, poiché egli stesso farà in modo che qualche pezzo ne manchi sempre: Ricordo tutto, ma non intendo niente».
Perciò scopo del biografo è rintracciare e compulsare tutti quei dati che in sé rimarrebbero materia grezza o inerte (come l’ingente materiale biografico che i positivisti ascrivevano un tempo alla meccanica di race/milieu/moment) e che solo di riflesso sulla pagina, una volta trattati e adulterati, guadagnano un’esistenza rediviva e insieme perfettamente autonoma. (Verrebbe da dire, a questo punto, che Italo Svevo non ha dovuto attendere la voga della autofiction, o come si chiama con tutte le sue più cavillose sottigliezze, per scrivere il romanzo terminale e suo malgrado testamentario).
Serra segue il decorso cronologico e tende a focalizzare i nessi in cui vita e antivita entrano in collisione oppure si separano per reciproca elusione dentro un gioco a somma zero o per un’arte dissimulatoria in cui Svevo eccelleva anche in quanto Ettore Schmitz. Puntuale è non solo la ricostruzione della couche familiare (inclusa ovviamente la tribù altoborghese dei parenti di sua moglie Livia, i Veneziani presso cui viveva a pigione forzata) ma anche quella dei rapporti, di norma rammentati ma non sempre esattamente noti, con lo psicoanalista Edoardo Weiss e con James Joyce, el Sior Zois nel dialetto di Trieste dove l’irlandese trascorse undici anni, un periodo, nota Serra, «molto più oscuro di quello parigino e trascurato da molti studiosi fino ad un’epoca relativamente recente».
Ma per Svevo complessi e normalmente ambivalenti furono in realtà tutti i rapporti (Svevo non andò mai in analisi, Svevo non si sentiva né voleva essere uno scrittore modernista o rivoluzionario), rapporti che divengono impalpabili e quasi innominabili, alla stregua di tabù, a proposito di due temi cruciali, come il nativo ebraismo (sempre ne parlò a mezza voce e per sposare Livia fu peraltro costretto a una forzata conversione) o le simpatie politiche per lo più rimaste clandestine: dopo una giovanile infatuazione per il socialismo umanitario, à la Turati, Svevo divenne via via un liberale conservatore anche se mai propriamente un uomo d’ordine: non per caso, nel frangente terminale, ignorò il regime fascista e le sue pubbliche manifestazioni cui concesse soltanto i gesti burocratici e puramente formali cui lo obbligavano la professione e il rango sociale.
Quanto infine alla endemica questione che associa esistenza e letteratura, vita e antivita, quanto agli infiniti paradossi che induce la sua stessa dinamica, un grande romanziere di oggi, Franco Cordelli, così ne scrisse in Proprietà perduta (1983, poi L’Orma, 2016): «La letteratura: l’unica esperienza assoluta della vita, l’unica esperienza che rifiuta la vita come pura esperienza». Non si potrebbe dirlo più limpidamente.