Da un bel po’ di anni vivo fra la Polonia e l’Italia. Il 22 febbraio sono arrivata a Roma da Varsavia quando il coronavirus stava solo iniziando a mietere le sue prime vittime in Lombardia. All’arrivo mi hanno misurato la temperatura, a Fiumicino alcune persone giravano già con le mascherine, ma ancora se la toglievano per bere un caffè (poggiandola sul banco) o fumare una sigaretta (tirandosela sulla fronte). Nei giorni a venire, mentre le notizie in Italia diventavano sempre più tragiche, il governo polacco, guidato dal partito di destra e conservatore PiS, decise di vendere le sue scorte di mascherine per acquistare…carbone. Cercavo sempre di rassicurare la mamma al telefono poiché per fortuna mi trovo in un posto isolato, in campagna, lontano dai focolai e dalle zone rosse. Sono traduttrice e interprete e, almeno con le traduzioni, riesco a lavorare a distanza, immersa nel verde e nei ritmi della campagna dove tutto ha bisogno di cure quotidiane e inderogabili. Il dubbio, dunque, era se tornare in Polonia o restare in Italia: da un lato la mia preoccupazione per avere mamma lì da sola, dall’altro il pericolo di contagio durante il volo e l’obbligo della quarantena con regole tutto meno che chiare: una roulette russa dovuta alla sciatteria del governo: chi arrivava dall’estero doveva essere sottoposto alla quarantena ma c’era chi veniva rimandato a casa per conto proprio, anche con i mezzi pubblici, chi invece veniva chiuso per due settimane in un dormitorio post-sovietico dell’ex stazione meteorologica in mezzo al nulla. Anche se eravamo entrambe più propense alla mia permanenza in Italia, la decisione finale non spettò a noi: Alitalia spostò il volo di ritorno dal 14 al 15 marzo e il governo polacco impose la chiusura delle frontiere il 15 mattina.

Più tempo passava, più tragiche si facevano le notizie provenienti dalla Polonia. Il numero dei contagi e dei morti cresceva, nonostante le rassicurazioni del primo ministro Morawiecki e del ministro della salute Szumowski: tutto sotto controllo, ripetevano. Tuttavia, le parole dei medici non erano così rassicuranti: lamentavano la mancanza dei DPI, accusavano il governo di aver inviato solo un paio di mascherine per l’ospedale e di aver trascurato per anni lo stato della sanità pubblica. Presto il governo vietò ai medici di rilasciare interviste, anche se continuano comunque a farlo, ma a titolo personale per evitare sanzioni. A inizio aprile Morawiecki e Szumowski, che fino a poco prima avevano pesantemente ironizzato sull’utilità delle mascherine, introdussero l’obbligo di indossarle dal 14 in poi: ovviamente dopo la Pasqua (il momento temuto dai virologi per i possibili contagi in famiglia), con i dovuti ossequi alla Chiesa. Quest’ultima, infatti, aveva espresso il suo malumore per il divieto dei raduni di più di 50 persone, chiedendo che il primo allentamento della quarantena riguardasse proprio le celebrazioni ecclesiastiche. Va detto che tutto ciò avveniva durante la campagna elettorale per il nuovo Presidente della Repubblica Polacca. Il partito PiS, con il candidato uscente Andrzej Duda, era pronto a tutto pur di non rinunciare alle elezioni, temendo sicuramente l’impatto che la pandemia avrebbe potuto avere sul voto. Di conseguenza, ha continuato a ritoccare i bollettini ufficiali e fare di tutto (dalla proposta per l’estensione del mandato di Duda all’organizzazione di elezioni per corrispondenza) pur di non introdurre lo stato di emergenza nazionale che avrebbe impedito di svolgere le elezioni del 10 maggio. Alla fine, le elezioni per corrispondenza non hanno avuto luogo e ancora non si sa quando e come si svolgeranno. Stranamente, dopo il 10 maggio il numero ufficiale di contagi è iniziato a salire, anche se fino a pochi giorni prima la notizia è che scendeva, certo per non seminare il panico. In aggiunta, la maggior parte dei contagi è avvenuta di recente nelle miniere di carbone nella regione della Slesia fra i minatori e le loro famiglie: così il cerchio virus-carbone-mascherine sembra chiudersi come una tragica beffa.

Come se non bastasse, prima di Pasqua fu pubblicato l’ordine del giorno per le prossime sedute del parlamento polacco per i successivi 15 e il 16 aprile con 4 disegni di legge, uno più crudele e raccapricciante dell’altro: divieto assoluto dell’aborto e della diagnosi prenatale proposto da Kaja Godek, sedicente attivista pro-life; messa al bando dell’educazione sessuale; partecipazione legale dei minorenni alle battute di caccia; e, dulcis in fundo, una legge dal non troppo vago sapore antisemita.

Le donne in Polonia hanno una ricca storia di proteste alle spalle contro ogni giro di vite sull’attuale legge sull’aborto, entrata in vigore nel 1993 e frutto del compromesso fra lo Stato polacco e la Chiesa, secondo la quale l’interruzione della gravidanza è consentita solo in tre casi: pericolo di vita o di salute della madre, malattia incurabile e/o relativo pericolo di vita del feto, gravidanza dovuta a un crimine. La famosa Protesta Nera, la Rivoluzione degli Ombrelli del 3 ottobre 2016, ripetuta negli anni successivi, infatti ha ispirato altri movimenti internazionali, fra cui NiUnaMenos in Argentina, le proteste in Corea del Sud, NonUnaDiMeno in Italia e la Women’s March a Washington negli Stati Uniti. Anche questa volta le donne polacche non potevano restare con le mani in mano nonostante le misure restrittive introdotte dal governo contro la pandemia. Per opporsi all’introduzione di una nuova legge antiaborto, tutte munite di un poster con lo stesso simbolo famoso in tutto il mondo e ideato dalla grafica polacca Aleksandra Jasinowska, si sono messe in fila di fronte ai negozi, per le strade e nelle piazze rispettando le dovute distanze, si sono introdotte nel traffico di Varsavia e di altre città, hanno creato petizioni online e uno streaming di programmi informativi su Facebook. Stavolta sono stata costretta a partecipare solo da lontano, in rete, anche se preferisco l’attivismo senza gli hashtag, i «mi piace» e i selfie.

Dopo la votazione del 16 Aprile, il Parlamento ha rinviato il disegno di legge per i successivi lavori nelle diverse commissioni, «congelando» di fatto la proposta. Mi è difficile stabilire se la decisione è dovuta alle proteste o alle critiche che Kaja Godek rivolge anche allo stesso PiS. Quello che posso dire è che mi sono sentita molto fiera delle donne e degli uomini polacchi che hanno mostrato che in questa nuova realtà del distanziamento sociale è comunque possibile unirsi in una protesta pacifica, nel rispetto delle restrizioni e delle leggi.

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Zuzanna Krasnopolska, è dottoressa di ricerca in letterature comparate, traduttrice, autrice di vari articoli sulla letteratura polacca e femminile pubblicati in polacco, italiano, inglese e francese. Socia della Società Italiana delle Letterate dal 2012. Vive tra la Polonia e l’Italia.