Secondo gli impegni contenuti nell’Accordo di Parigi sul clima, l’Unione Europea al massimo entro il 2030 dovrebbe attuare uno stop definitivo all’utilizzo del carbone per la produzione elettrica. Se ci sono alcuni paesi che vorrebbero addirittura anticipare i tempi, se ne contano altri che sembrano avere ben altre intenzione mettendo a rischio le promesse dell’Ue. L’Italia rientra nel primo gruppo, almeno nelle intenzioni del governo, che ha confermato gli obiettivi della strategia energetica nazionale del 2017 secondo cui entro il 2025 gli otto impianti al carbone italiani smetteranno di funzionare. A sentire le parole dell’Enel, che gestisce cinque degli otto impianti attivi, compresi Brindisi Sud e Civitavecchia, per la centrale di La Spezia si anticiperà al 2021 e quella di Fusine potrebbe chiudere al 2023. A sopresa, però, lo scorso maggio Enel ha annunciato l’intenzione di riconvertire questi quattro impianti a gas, in barba al suo impegno per la decarbonizzazione al 2050, adducendo motivi di presunta sicurezza energetica per l’Italia. Null’altro si sa per il quinto impianto Enel in Sulcis in Sardegna, regione dove anche opera la società EPH del magnate ceco Daniel Křetínský, interessato a convertire la centrale di Fiumesanto a biomassa con piani ancora poco chiari e probabili. Gli ultimi due impianti sono invece della A2A, a Monfalcone e Brescia, con il secondo che potrebbe chiudere al 2022, con una lenta conversione a gas.

ANCHE IN SPAGNA il cambio di governo a metà del 2018 ha innestato un nuovo dibattito sulla questione e più in generale sulla transizione energetica. Nonostante l’esecutivo guidato dal socialista Pedro Sánchez non sia riuscito a fissare in maniera esplicita l’uscita al 2025, ha finalmente dato il via libera alla chiusura di alcuni impianti a carbone, quali Compostilla e Teruel al 2020.
La posizione di Endesa, dal 2009 in capo a Enel che ora detiene il 70 per cento delle sue azioni, è stata invece a dir poco attendista. Così tanto che i vertici di Endesa sono entrati in conflitto con lo stesso amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, che nel 2017 aveva aperto alla chiusura di due dei sei impianti di Endesa, quelli di Compostila e Teruel. L’effetto Sánchez ha fatto parzialmente cambiare idea al board dell’utility spagnola, impegnatisi in uno shut down di tre impianti, compresa Alcudia, nello splendido scenario delle Baleari.

Rimangono senza data di chiusura i due impianti più grandi gestiti da Endesa: As Pontes in Galizia e Litoral in Andalusia. Con la recente crisi di governo e le prossime elezioni dal risultato incerto, i passi nella giusta direzione intrapresi nel 2018 potrebbero rallentare. Difficile che si torni proprio indietro, ma di sicuro potrebbe diventare molto più difficile farne di nuovi in avanti.
Ma, se si guarda soprattutto a Est, i dati sui mix energetici di altri stati membri inquietano non solo il fronte ambientalista: la Repubblica Ceca dipende per circa il 50 per cento dal carbone, l’Estonia per il 77, la Polonia addirittura per l’80.

IN POLONIA SI BRUCIANO SIA ANTRACITE che lignite, quest’ultima è la tipologia di carbone più inquinante, impiegata nelle centrali di Ze Pak, Bełchatów e Turów. Gran parte della lignite usata proviene dalla miniera a cielo aperto di Turów, situata a pochi chilometri dai confini con Germania e Repubblica Ceca, nel cosiddetto triangolo nero, e da cui si estraggono 7,5 milioni di tonnellate l’anno del combustibile più inquinante che ci sia. L’intenzione della PGE, la principale utility energetica polacca, è di farla rimanere in funzione almeno fino al 2044, sorpassando quindi abbondantemente il limite del 2030 fissato dall’Ue. Come è facile immaginare, la miniera di Turów ha pesanti impatti transfrontalieri, in primis sulla qualità dell’acqua potabile di ben 30mila persone. La Polonia ha anche il non proprio invidiabile record della centrale che brucia lignite più grande al mondo, quella di Bełchatów, a due ore di macchina da Varsavia.

SE GLI EFFETTI SUL CLIMA GLOBALE di questi impianti si vedranno a medio e lungo termine, quelli immediati sono sulla vita delle persone. In uno studio redatto nel 2016 da varie organizzazioni ambientaliste, tra cui il Wwf e Climate Action Network, si stima, per difetto, che siano 5.830 le morti premature ogni anno dovute alla polvere nera in Polonia e nei paesi vicini. Eppure quello del carbone è un business che non si regge più da solo, a conferma di quanto sia drammaticamente obsoleto. Nel 2014 il comparto minerario ha registrato una forte flessione, accumulando 300 milioni di dollari di perdite. Non solo, le piccole imprese private, nate durante le privatizzazioni degli anni novanta, sono fallite o sono state ricomprate dallo Stato.

Così tre anni fa il governo si è visto costretto a salvare dalla bancarotta la principale compagnia statale del carbone, Kompania Węglova, ripianando i debiti accumulati e trasferendo le miniere a una nuova azienda di stato, la Polska grupa górnicza (Pgg).
A dare ascolto ai con dati ufficiali, la produzione è in calo costante. Nel 2017 la Polonia ha prodotto 66 milioni di tonnellate di carbone, sommando antracite e lignite, mentre dieci anni fa ne estraevano 80. Se il ruolo dello Stato continua quindi a essere importante, non va sottovalutato quelle delle compagnie private che sostengono il comparto, in particolare le società assicurative. Tuttavia, grazie alla pressione del fronte ambientalista, sembra essere in atto una crescente inversione di tendenza. Dopo oltre un anno di campagna condotta da Greenpeace e Re:Common, in Italia le Generali hanno stilato una nuova policy molto meno favorevole al sostegno della polvere nera e nei prossimi mesi potrebbero anche rivedere i rapporti contrattuali in essere in Polonia e Repubblica Ceca.

PURTROPPO IL CAHIER DE DOLÉANCES sul più inquinante dei combustibili fossili non finisce qui. Negli ultimi mesi, infatti, c’è un altro Paese che è stato all’attenzione dei media per il suo legame con la polvere nera: la Germania. Additata spesso come esempio da seguire per gli investimenti sulle rinnovabili, da cui però ricava solo il 33 per cento del suo fabbisogno energetico, storicamente ha sempre puntato forte sul carbone, che conta ancora per un eloquente 40 per cento su scala nazionale.
È dello scorso dicembre un’apparente buona notizia: la chiusura dell’ultima miniera di antracite. Ma per far funzionare le centrali la Germania usa anche la lignite – che continuerà a essere scavata – e importa varie tipologie di carbone da altre parti del mondo. Secondo i dati relativi al biennio 2016-2017, circa il 65 per cento del carbone consumato all’interno dell’UE è giunto da paesi esportatori, principalmente Russia, Stati Uniti, Colombia e Australia. Questo sta a significare che alcuni stati membri, tra i quali la Germania, favoriscono un comparto inquinante anche al di fuori dei confini del Vecchio Continente, con uno sgradito effetto domino sulle emissioni globali.

La Germania continuerà a importare carbone per un paio di decenni, visto che uno stop definitivo alle sue 84 centrali è previsto solo per il 2038. La road map, resa pubblica negli ultimi giorni del 2018, contempla prima di tutto un negoziato tra Stato e utility energetiche entro fine giugno 2020. Qualora le trattative non dovessero produrre frutti, sarà il governo a prendere provvedimenti in maniera diretta. Si sa già, però, che i target intermedi non sono del tutto soddisfacenti: una riduzione di 12,5 gigawatt di potenza installata e non di 20 come auspicato entro il 2020, nessun obiettivo preciso fra il 2023 e il 2030 e, come detto, un addio al 100 per cento al 2038, con una possibilità di anticipare di tre anni. Troppo tardi, in entrambi i casi.

NON DEVE SORPRENDERE che Polonia e Germania siano nella Top 10 dei consumatori di carbone al mondo, parecchio distanziati però dalla capolista Cina, dall’India e dagli Usa. L’Impero di Mezzo è responsabile di quasi la metà (il 46%) dell’impiego della polvere nera, sebbene sia intenzionata a ridurre già entro il 2020 il suo impieg, andando sotto il 58 per cento del suo mix energetico – ora siamo oltre il 59. Poco disposti a invertire gli attuali trend nemmeno i governi guidati da Narendra Modi e Donald Trump, quest’ultimo fautore di un revival del carbone a stelle e strisce nonostante un calo drastico negli ultimi due decenni – da 50 a 29 per cento del mix energetico. Per aiutare il settore, l’inquilino della Casa Bianca ha cancellato il Clean Power Act di Obamiana memoria e penalizzato il solare, aumentando la pressione fiscale del 30 per cento sull’installazione di nuovi pannelli. Insomma, il fronte pro-carbone nel Pianeta è ancora troppo forte per poter sperare in un addio definitivo alla polvere nera in tempi accettabili.